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Vi racconto i misteri della spesa pubblica

Periodicamente, circa ogni mese, articoli di stampa ci informano con dovizia di stime delle mirabilie di risparmio sulla spesa per forniture e servizi che si determinerebbero, se tutte le amministrazioni acquistassero dalla Consip. In particolare, ci si informa che il risparmio medio consentito dall’accentramento della spesa ammonta a circa il 20% del costo di prodotti di largo utilizzo, come i computer, le stampanti e similari. Le informazioni vengono regolarmente completate, poi, con qualche dichiarazione di componenti o consiglieri del Governo, pronti a rilevare che grazie all’applicazione dell’accentramento della spesa si riesce a garantire qualcosa come 5 miliardi in un triennio di minore spesa sull’aggregato delle acquisizioni di beni e servizi, che ammonta a circa 131 miliardi l’anno, dei quali sono “aggredibili” circa 78-80 miliardi. Ma qui le cose per chi scrive e capisce poco di economia si complicano.

Perché leggendo la nota di aggiornamento al Def per il 2015 si nota che la spesa dovuta ad acquisti intermedi (cioè ad appalti, forniture e servizi) negli anni si prevede continui a crescere: 132.002 milioni nel 2016, 133.984 milioni nel 2017, 135.139 milioni nel 2018 e 137.916 milioni nel 2019. Dunque, i risparmi derivanti dalla Consip, che fine fanno? D’altra parte c’è un’altra cosa che non torna e riguarda il limite complessivo alla spesa. In termini generali, può andare benissimo l’idea di centralizzare quanto più possibile le procedure di spesa in poche stazioni appaltanti e meglio ancora è dare loro poteri di negoziazione estesi che consentano di prevedere riduzioni sensibili ai costi unitari. Dunque, è ottimo che la Consip consenta di acquisire materiali e servizi a prezzi inferiori del 20% rispetto a quelli che le PA pagano a seguito di appalti extra Consip.

Però un conto sono i costi unitari, un conto è la spesa complessiva. Per meglio spiegarsi: se la centrale di committenza, come la Consip, permette di comperare il singolo bene ad un costo inferiore del 20% rispetto a quello generalmente sostenuto da un certo ente della PA, ma poi questo ente, rendendosi conto del risparmio, decida di acquisire il 20% in più del materiale, il risparmio sul flusso finanziario complessivo di spesa non si realizza concretamente: la spesa di quell’ente resta identica a quella dell’anno prima. Non necessariamente, quindi, un risparmio sui singoli prodotti o prezzi unitari conduce senza dubbio ad una riduzione complessiva della spesa per acquisti intermedi a livello macroeconomico.

A questo scopo, accanto a misure come quelle di centralizzazione degli acquisti, occorre fissare parametri che impongano agli enti di non superare tetti di spesa complessiva per appalti di lavori, servizi e forniture. E’ un po’ il metodo che è stato seguito per ridurre la spesa del personale pubblico, unico macroaggregato della spesa pubblica in costante discesa. Certo, il rischio è apportare i tanto odiati “tagli lineari” o, comunque, di introdurre nuovi vincoli all’autonomia di spesa delle amministrazioni. Ma, senza obiettivi complessivi di risparmio, la riduzione anche significativa della spesa dell’acquisto di singoli prodotti ben difficilmente porta a risparmi sensibili.

Luigi Oliveri, laureato in giurisprudenza, dirigente amministrativo della Provincia di Verona, collaboratore di Italia Oggi, lavoce.info, varie altre riviste giuridiche ed autore di volumi in materia di diritto amministrativo.

(Leggi l’articolo completo su phastidio.net)

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