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Articolo 18 e pubblico impiego: l’apartheid tra lavori protetti e non protetti continua

All’indomani della sentenza della Corte di Cassazione n. 11868 del 9 giugno 2016, che ha stabilito che ai dipendenti pubblici debba applicarsi sempre il “vecchio” articolo 18 dello Statuto dei. Lavoratori (con disapplicazione dunque della Riforma Fornero, e lasciando il dubbio relativo all’applicabilità ai dipendenti pubblici del contratto a tutele crescenti previsto dal nuovo Jobs Act), vedo spendersi numerosi commenti relativi a quale sia l’argomentazione giuridica più convincente, in punto di diritto: se quella che riserva ai lavoratori assunti con contratto di pubblico impiego le medesime tutele garantite in caso di licenziamento illegittimo ai lavoratori nel settore privato, o se quella che invece valorizza le peculiarità del pubblico impiego e pertanto riconosce la legittimità di una protezione, mi sia concesso, “privilegiata”.

In verità, a me sembra che i termini della questione non vadano ricercati nelle glosse dei commentari giuridici. A ben vedere, infatti, l’annoso dibattito interpretativo (che certo non si fermerà con la pronuncia del 9 giugno) – oltreché trarre origine da un disposto lacunoso e (volutamente?) incerto della normativa applicabile – si radica in un contesto ben diverso, che di giuridico non ha nulla: il trattamento dei dipendenti pubblici è, infatti, tema anzitutto politico e culturale.

Ad ogni modo, ognuno tragga le considerazioni che ritiene opportune da un capovolgimento così repentino dell’orientamento della Corte di Cassazione che, a novembre 2015, ha affermato come sia «innegabile che il nuovo testo della L. n. 300 del 1970 art. 18, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, trovi applicazione» ai licenziamenti intimati al dipendente pubblico; a giugno 2016, la medesima Corte, in contraddizione con se stessa, ha invece affermato che «non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma». Il ragionamento giuridico sembra svestirsi dalla sua aurea di scientificità e porsi a strumento di propaganda di una determinata “concezione delle cose”, o dell’altra.

Oggi, oggetto di discussione è il peso del «successivo intervento normativo di armonizzazione» (intervento previsto dall’art. 1, comma 8, della Legge Fornero e finora mai effettivamente avvenuto) senza il quale, secondo la recente sentenza della Corte di Cassazione, non sarebbe possibile estendere ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni la disciplina sui licenziamenti vigente nel settore privato. Domani, quando il Jobs Act entrerà a regime nella Pubblica Amministrazione, oggetto di discussione nelle aule di tribunali (già lo è nei salotti accademici, per non citarne altri) sarà il fatto che il Jobs Act troverebbe applicazione solo unicamente per i lavoratori che rivestono la qualifica di “operai”, “impiegati” o “quadri”, categorie non contemplate dal D.Lgs. 165/2001.

Quale sia il ragionamento giuridico più convincente non spetta a me stabilirlo; mi basti considerare che nel giro di pochi anni, due Riforme del lavoro non hanno saputo elaborare un testo che chiarisca espressamente se il pubblico impiego rientri nel suo ambito di applicazione, e che – soprattutto – per sostenerne l’inapplicabilità, sono stati evocati, per la Riforma Fornero e per il Jobs Act, due ordini di ragioni completamente differenti gli uni dagli altri. E tanto dovrebbe, a mio avviso, bastare.

Insomma, per concludere mi sia concesso uno sfogo: non sono trascorsi tantissimi anni da quando Pietro Ichino, riferendosi all’ordinamento giuslavoristico italiano, parlava di apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori non protetti; apartheid a cui proprio noi italiani sembriamo non essere in grado di rinunciare.

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