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Brexit, tutti i passi istituzionali per uscire dall’Ue. Parla Ettore Greco (IAI)

I britannici hanno scelto; adesso la palla passa ai loro governanti, chiamati a tenere ben saldo il timone di un Paese mai come oggi diviso in due demograficamente e geograficamente: giovani, Londra, Scozia e Nord Irlanda contro over50, Inghilterra e Galles. Per sapere quali sono le tappe che d’ora in avanti si disseminano sul sentiero dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea abbiamo parlato con Ettore Greco, direttore dell’Istituto Affari Internazionali (IAI).

“Il Regno Unito rimane membro dell’Ue e continuerà ad esserlo per diversi anni – mette in guardia Greco in una conversazione con Formiche.net -. È prevedibile che ci vorrà parecchio tempo per mettere a punto l’accordo di recesso, come descritto dall’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea (TUE)”. Una norma inedita prodotta dalla riforma di Lisbona: adesso – in assenza d’ogni prassi – vede per la prima volta all’orizzonte una sua applicazione, che di fatto apre praterie di riflessione giuridico-politica.

“Il negoziato per l’uscita dall’Unione sarà effettivamente avviato solo quando lo Stato avrà notificato al Consiglio europeo l’intenzione di recedere. David Cameron ha detto ieri mattina che lascerà Downing Street a ottobre e che il Regno Unito avrà bisogno di un altro capitano per portare a termine il negoziato: toccherà quindi al nuovo premier attivare la procedura prevista dall’articolo 50, informando il Vertice dei capi di Stato e di governo dell’intenzione di abbandonare la nave”.

Prima dell’autunno, insomma, Londra e Bruxelles si prenderanno le misure in vista di un negoziato che sarà condotto dal prossimo primo ministro di Sua Maestà, che – secondo il funzionamento della macchina politico-istituzionale britannica – sarà il nuovo leader del partito conservatore (in pole sono i due alfieri del ‘Leave’, Michael Gove e Boris Johnson). A meno che – fa notare Greco – l’assenza di una nitida maggioranza ai Comuni, con un fronte Tories lacerato al suo interno, non farà propendere per un ritorno anticipato alle urne. Una circostanza che, inevitabilmente, posporrebbe ulteriormente l’avvio dei negoziati fra il Regno e il Consiglio europeo, lasciando Londra nella palude dell’incertezza ed esposta ai subbugli dei mercati.

Intavolato il negoziato “volto a definire le modalità di recesso dall’Ue, il procedimento si mette ufficialmente in moto e scatta da questo momento il termine di due anni indicato dalla norma come orizzonte temporale massimo per la conclusione dell’accordo. Se entro questi due anni l’intesa non viene raggiunta, i Trattati cessano di essere applicabili alla Gran Bretagna (lo stesso effetto si otterrebbe anche se, entro questa scadenza, il patto dovesse esser siglato, ndr), salvo che il Consiglio europeo, d’accordo con Londra, decida all’unanimità la proroga del termine”. La conclusione dell’intesa fra Londra e i rimanenti Ventisette sarà deliberata a maggioranza qualificata e sottoposta alla previa approvazione del Parlamento europeo. In questo passaggio, l’articolo 50 rinvia alle disposizioni relative alla conclusione di accordi internazionali con Paesi terzi: tale sarebbe già considerato il Regno Unito, il quale non parteciperebbe, in seno al Consiglio europeo e al Consiglio, alle deliberazioni che lo riguardano. Quanto al voto dell’assemblea di Strasburgo, invece, oltre ai precedenti mancano anche indicazioni normative: è da ritenere verosimile che i deputati eletti nei collegi del Regno possano legittimamente prender parte alla votazione.

Ma qui siamo già alla fase due: quando, cioè, un nuovo governo londinese busserà alla porta della più alta istituzione politica dell’Ue per notificare la volontà di recesso. Prima, non bastando il mero esito referendario dell’altra notte, occorrerà interpellare il Parlamento (che in seguito dirà la sua anche sull’accordo di recesso siglato dal governo). “Il nuovo premier che si presenterà a Westminster per la fiducia lo farà con un programma e con una certa idea negoziale sulla base della quale chiederà il sostegno dei deputati. Tuttavia, va notato come in Parlamento c’è una larga maggioranza che si era schierata per il ‘Remain’. Questo non prelude a un tradimento degli esiti del voto, ma semmai – e cominciano già a circolare voci in questo senso – a un forte ruolo dei Comuni nella fase negoziale. Tenuto conto che i Breexiters hanno puntato molto sull’importanza della sovranità del Parlamento di Westminster”. La trattativa cui fa riferimento il direttore del think tank romano, tuttavia, si distacca di poco da quella delineata dall’articolo 50: “La norma parla, formalmente, delle modalità di recesso, ma dice anche che va tenuto in considerazione il quadro delle future relazioni con l’Ue. Il che suggerisce uno sviluppo parallelo del negoziato sul recesso e di quello sulla ridefinizione dei rapporti fra Londra e l’Unione, anche se quest’ultimo richiederà molto più tempo”.

Quest’altra trattativa potrebbe avere come obiettivo l’ancoraggio del Paese al mercato unico, secondo il modello che ad oggi associa Norvegia, Islanda e Liechtestein all’Unione, attraverso la partecipazione allo Spazio economico europeo (area di cooperazione che taglia comunque fuori settori critici come pesca e agricoltura). “Ma in questo caso – sottolinea Ettore Greco – Londra dovrebbe accettare di non avere più voce in capitolo sulla normativa relativa al mercato unico (perché le decisioni al riguardo sono prese a livello di Ue), di contribuire al bilancio di un’Unione di cui non farà più parte e di accettare la libera circolazione delle persone. Come si può vedere, sono tre punti delicati, perché al centro dei toni aspri della campagna elettorale dei sostenitori del ‘Leave’, che hanno contestato proprio questi aspetti della membership europea”. L’alternativa sarebbe la conclusione di accordi commerciali ad hoc, sul modello svizzero; ma Bruxelles starà a guardare, prima di prendere atto della volontà britannica (del tutto in forse) di corredare il divorzio con un ricongiungimento di qualche sorta.

Intanto, conclude Greco, “il voto per l’addio all’Ue ha mandato definitivamente in soffitta l’accordo concluso dal Consiglio europeo straordinario di febbraio, che prevedeva una clausola di implementazione solo in caso di vittoria della permanenza nell’Ue al referendum. Le concessioni strappate da Cameron sono quindi, ormai, lettera morta”.

Era all’intesa “a prova di divorzio” siglata quattro mesi fa che si riferiva, del resto, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, quando ha sbarrato la strada a ogni “rinegoziazione” dell’accordo (e non certo alle nuove trattative che si aprono oggi sui rapporti futuri fra Londra e l’Ue). Si tratta di un’ipotesi che era stata ventilata in campagna elettorale dallo stesso fronte del ‘Leave’: riaprire il negoziato sui termini della partecipazione del Regno Unito all’Ue, con l’obiettivo di strappare concessioni che vadano al di là di quanto concordato a febbraio da Cameron, consentendo una più forte tutela della sovranità nazionale. È fuori discussione, ha replicato a muso duro Bruxelles. Out is Out.



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