La prima, lunga fase di una delle campagne elettorali americane più convulse, e potenzialmente rivoluzionarie, si è conclusa pochi giorni fa con la più conservatrice fra le scelte a disposizione degli elettori democratici, quelli che dovrebbero, in teoria o secondo la leggenda, voler cambiare le cose, anzi “cambiare l’America”. Erano le ultime sei primarie e contenevano, soprattutto in teoria, l’ultima chance di un’alternativa a una scelta per la Casa Bianca dell’aspirante più tradizionalista, prudente e conciliante, fedele a programmi, linguaggio e slogan che riportano indietro addirittura di oltre vent’anni. Fu nel 1992 che l’era repubblicana di Reagan e dei Bush si spense, il suo candidato piegato più da una coppia che da un leader: Bill e Hillary. Il loro rapporto non aveva precedenti, né aveva avuto, finora, reali imitatori. Meglio di chiunque altro lo aveva riassunto la sposa, riproponendosi come una offerta speciale da supermercato: “Se voterete per Bill, comprerete anche me con un fortissimo sconto”. Li comprarono e si trovarono bene: gli anni Novanta furono fra i più felici e comodi dell’ultima America.
Molti articoli erano disponibili a buon prezzo, il bilancio federale tornò in attivo (impresa da allora mai più ripetuta), il vento della distensione cominciò a soffiare anche da Est, dalle terre del vecchio nemico. Riforme illuminate passarono l’esame del Congresso, agevolate da una demagogia più conciliante che rabbiosa. Anche in campo razziale: Bill Clinton fu soprannominato “il primo presidente nero”, con una esagerazione di cui si compiacque. Hillary si propose addirittura come sposa d’avanguardia di un coniuge moderato. Per prima, propose una riforma del sistema sanitario che fu respinta ma che anticipò l’iniziativa di Barack Obama una ventina di anni dopo. Lei e lui conclusero un’America, non ne proposero una nuova.
Nella loro legislazione e nella loro retorica si trovarono ben poche tracce di una intuizione del futuro, di un mondo che stava per cambiare e che oggi è cambiato, vorticosamente. Il vice di Clinton, Albert Gore, si vantò di avere “inventato Intenet”. Non era vero, ma a quel tempo era cosa di cui vantarsi. Non gli bastò per succedere alla Casa Bianca. Anzi, la sua sconfitta aprì la via al ritorno della dinastia Bush e alle trombe di guerra come risposta all’assalto del terrorismo. Cominciarono le guerra umanitarie portate avanti dai repubblicani, ma approvate e così battezzate da Hillary Clinton: in Iraq, in Bosnia, più tardi in Libia e poi in Siria. Contemporanee al dilagare della globalizzazione e dell’età dei robot. Tre novità che cambiarono davvero il mondo, anzi lo stanno cambiando a una velocità sempre maggiore e dalle conseguenze sempre più sconvolgenti.
I repubblicani avevano esaurito le loro energie quando riemerse da una vacanza ritenuta confortevole una Clinton: Hillary, dal momento che Bill aveva già consumato i due quadrienni concessi dalla Costituzione. Il suo ritorno pareva scontato. Arrivò, invece, la massima sorpresa: Barack Obama, col suo sogno di un’America nuova in tutt’altro senso, che avesse ritrovato il suo idealismo e capacità ideale. Sfidò Hillary, puntando, e fu la prima grande novità, sul voto bianco e non su quello cui la sua pelle pareva destinarlo. L’America nera scelse agli inizi, nelle primarie della primavera del 2008, Hillary la bianca che dissetava le nostalgie degli anni Sessanta. Obama si riprese gradualmente, ottenne la nomination con esattamente il 50,1 per cento delle primarie democratiche contro il 49,9 per cento della Clinton.
Quando fu eletto, la consolò nominandola Segretario di Stato, affidandole dunque la gestione della politica estera, spesso in contrasto con i principi idealistici del presidente. È impossibile ridire in due parole i successi, gli insuccessi, il significato della presidenza Obama. All’avvio del 2016 egli si è presentato come la sintesi di un’era nuova, ma contrastata da cento novità: la globalizzazione che insidia o rode i posti di lavoro in casa, i robot che rischiano di lacerare le strutture dell’industria mondiale, il logorio accelerato del ceto medio che potrebbe spostare anche gli equilibri politici delle più solide democrazie.
Questi i temi della campagna 2016, che gli Stati maggiori dei due partiti prevedevano come contrassegnata dalla stabilità, ma che invece fece esplodere in ambedue i campi una contestazione con pochi precedenti. La prima metà dell’anno elettorale ha portato ben presto un nome, Donald Trump, e ha fatto una vittima: l’establishment del Partito repubblicano, volto a una pacata restaurazione, e che tutto poteva prevedere tranne un uomo-tornado. Parlando con vigore e spesso a vanvera, Trump ha spazzato il terreno di gioco, eliminato tutti gli altri e da tempo è pronto ad affrontare la finale.
In campo democratico l’evoluzione-rivoluzione non ha lasciato indovinare agli inizi, ma poi è esplosa e finalmente ha dominato la seconda parte del secolo. Con un protagonista totalmente diverso da Trump, con una sfida di senso opposto, resuscitando invece delle vibrazioni della destra, gli slogan e i vocabolari della sinistra, resuscitando perfino due parole incomprensibili in America: rivoluzione e socialismo. E’ sceso in campo che la partita era quasi finita. Da noi si diceva, un tempo, in “zona Cesarini”. Pareva una comparsa, è stato protagonista. Si è imposto in quasi metà degli Stati. Pur non avendo gareggiato nelle prime “primarie” in calendario, ha finito con l’imporsi in breve tempo e strappare alla Clinton quasi la metà degli Stati. Mentre Trump veniva incoronato dai repubblicani, lui, Bernie Sanders, anziano senatore del Vermont, piccolo paradiso di vacanze alpestri, si arrampicava sul pennone democratico. Attaccava Hillary da sinistra, la accusava di “intimi rapporti” (innegabili) con Wall Street, proponeva riforme egualitarie. Diceva il contrario con un accento molto simile a quello di Trump.
Arrivato a credere che avrebbe potuto strappare la nomination alla dinastia Clinton e nonostante che gli mancassero i voti delle minoranze razziali. I suoi erano e sono bianchi, giovani, piuttosto colti. Non sono abbastanza, ma ci è arrivato vicino. L’ultima battaglia si è svolta martedì in California e la Clinton l’ha vinta. E adesso la nomination è sua, quali che siano gli slogan di sfida del suo inatteso rivale. Ormai i dadi sono tratti: gli americani dovranno scegliere tra un “contestatore” di destra e una “conciliatrice” che viene da sinistra. L’interrogativo oggi è uno: ci saranno più repubblicani che votano democratico o democratici che votano repubblicano? Un interrogativo assai raro nella storia politica Usa.