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Come sarà l’Europa del dopo Brexit

turchia, renzi, hollande

Sabato 25 giugno, il giorno dopo il risultato elettorale sulla Brexit, si è dimesso il Commissario europeo per la stabilità finanziaria, i servizi finanziari e il mercato unico, Lord Jonathan Hill. Dal novembre 2014 si occupava un portafoglio importante, attribuito come segno di fiducia nei confronti del Regno Unito, e malgrado le critiche sull’eccessivo riguardo per gli interessi della City. Venerdì 24 giugno, dopo l’esito del referendum, i quattro più importanti gruppi politici del Parlamento europeo ne invocavano le dimissioni. Lord Hill cesserà le sue funzioni il 15 luglio e sarà sostituito a interim dal vicepresidente Valdis Dombrovskis. Fino all’uscita formale, il Regno Unito ha sempre diritto a un commissario, che sarà nominato in autunno, ha fatto sapere Cameron. Di certo le deleghe saranno più leggere.

I NOMI

Diversi parlamentari europei britannici che occupano posti di rilievo, nelle commissioni o in altre sedi sono stati presi di mira da parte di vari colleghi. Il conservatore scozzese Ian Duncan ha già lasciato il posto di  negoziatore per il Parlamento europeo per il sistema di scambio di quote di emissioni, sul tema del cambiamento climatico. Dovrebbero dare le dimissioni – o ci stanno pensando – la laburista Neena Gill, relatrice di una proposta di Regolamento sui money market mutual funds (di nuovo di interesse per la City),  la conservatrice Vicky Ford, presidente del Commissione per il mercato interno (da cui il Regno Unito uscirà), il laburista Claude Moraes a capo della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (che interessa tra l’altro la libera circolazione delle persone). I 73 parlamentari britannici dovrebbero conservare il loro seggio fino alla fine del negoziato previsto dall’articolo 50 dei Trattati, e dunque per due anni dall’attivazione della procedura, ma la politica è un’altra cosa.

I RAPPORTI DI FORZA

Infatti, a partire dalla prima dichiarazione di David Cameron di venerdì mattina, ci si è posti sul più classico e ottocentesco rapporto di forza tra Stati. Il primo punto di frizione è sulla data di attivazione dell’articolo 50. Il Regno Unito ha interesse a prendere tempo, e Cameron ha fatto intendere che sarà compito del suo successore, in autunno. Da parte degli altri governi europei è arrivato il fermo e unanime invito ad attivare la procedura sin da subito. Nella campagna referendaria, i sostenitori della Brexit proponevano persino di non attivare l’art.50 e di decidere unilateralmente il recesso per negoziare contemporaneamente nuovi accordi commerciali. Al Parlamento europeo si afferma invece che prima di concludere accordi commerciali si deve completare la separazione, che riguarda un discreto complesso di norme attualmente vigenti nel Regno Unito, e che vanno sostituite.

I CONFLITTI

Si parte quindi da un conflitto ancora prima di iniziare il negoziato. Per fortuna non ci sarà vuoto giuridico ha assicurato Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, il 24 giugno, ma il trattato commerciale seguirà in ordine di tempo, si aggiunge dal Parlamento europeo. Lo conferma un appunto proprio del Parlamento europeo del febbraio 2016 (ci si è preparati per tempo), che ricorda che non vi sono precedenti (neppure della Groenlandia, che è considerata soltanto un territorio in cui non si applica la legislazione europea), che l’articolo 50 del Trattato serve ad evitare il ricorso alle più severe norme internazionali, che ha carattere essenzialmente procedurale. Tra l’altro, anche se l’accordo di recesso comporta la sola decisione del Consiglio a maggioranza qualificata e un parere del Parlamento europeo, gli Stati membri dovrebbero comunque ratificarne le conseguenze per le modifiche che comportano per i Trattati.

MODELLO NORVEGESE?

Nel dibattito britannico sembra esclusa l’ipotesi di adesione allo spazio economico europeo sul modello norvegese: costa procapite l’85% di quanto costa attuale l’adesione del Regno Unito e comporta l’obbligo di obbedire alla legislazione sul mercato unico senza peraltro poter decidere nulla al riguardo. Mentre si discute di modello svizzero, canadese o statunitense, sembra che – a differenza dell’Unione europea – oltre il Tamigi non via sia stata una solida preparazione, con una specie di piano B, oltre a quanto detto in campagna elettorale.

IL CASO DEI FUNZIONARI

Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha rassicurato con una email i funzionari di nazionalità britannica sul fatto che nulla cambia per loro, e lo stesso ha fatto il presidente del parlamento europeo, Martin Schulz. Tuttavia proprio l’appunto di febbraio ricordava come per legge occorra, per essere funzionari europei, avere la nazionalità di uno degli Stati membri. Gente in scadenza quindi, che tornerà sull’isola tra un paio di anni, salvo imprevisti: 1200 persone alla Commissione, qualche centinaio al Parlamento. Politicamente, diverse posizioni più elevate nella Commissione, al Consiglio e al Parlamento saranno messe presto in discussione, sebbene in maniera più velata, per direttori e capi unità in posizioni di conflitto sul negoziato, dal servizio rapporto esterno al mercato unico, dai servizi finanziari alle politiche per la pesca.

IL NEGOZIATORE DEL DIVORZIO

La Commissione ha già iniziato il lavoro. A 48 ore dall’esito del referendum, il belga Didier Seeuws è stato nominato capo negoziatore per l’uscita del Regno Unito dall’Unione. Nato a Gand nel 1965, è uno che conosce tutti: oltre che vice rappresentante permanente presso l’UE per il Belgio e membro del COREPER I, Didier Seeuws è stato capo di gabinetto di Hermann Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo prima di Tusk, ed è stato portavoce dal 2003 al 2007 di Guy Verhofstadt, quand’era primo ministro belga.

LO SCENARIO

Anche sotto il profilo politico, in discrezione nel corso delle ultime settimane, è stata elaborata una posizione di prospettiva dal tandem franco-tedesco. Oltre alle anticipazioni a ridosso del referendum, alcuni punti sono emersi nella riunione dei ministri degli esteri dei sei Stati fondatori, che si è tenuta vicino a Berlino sabato 25 giugno. Nel comunicato congiunto, i sei ministri di Francia, Italia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo ricordano, e danno un senso geopolitico, al ruolo fondamentale dell’integrazione europea e dei Trattati del 1957 come fattore di stabilità, pace e sviluppo in Europa dopo secoli di guerre. Nel riconoscere i progressi fatti, però i sei ministri riconoscono “diversi livelli di ambizione tra gli Stati membri” sull’integrazione europea. Questi “livelli di ambizione” vanno gestiti meglio, cioè in maniera flessibile, per dare migliore soddisfazione ai cittadini, quindi per superare l’attuale crisi di consenso.

La riforma dell’Unione (per i Paesi che ci staranno) significherà restituire varie politiche agli Stati membri e alle regioni – cioè rinazionalizzare e delegificare con un’Unione dunque meno pervadente – e concentrarsi su poche politiche di vero interesse comune: sicurezza interna e esterna, gestione delle migrazioni, convergenza delle economie, crescita economica, unione monetaria ma anche – tra le righe – coesione economica e sociale.

Lunedì se ne parlerà di nuovo a Berlino tra i rappresentanti dei tre Paesi fondatori più grandi, tra Renzi, Merkel e Hollande, e poi in settimana il fiume di parole scorrerà tra Londra, il Consiglio europeo straordinario del 28 e 29 giugno e la concomitante sessione del Parlamento europeo.


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