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Cosa nasconde la retorica del New normal in economia

Mentre la cronaca di sussegue, frenetica e insieme poco attenta, vale la pena spendere un po’ di tempo per riflettere sui sommovimenti profondi che agitano la superficie del nostro quotidiano dibattere, aprendosi di tanto in tanto squarci da cui s’intravede l’abisso lungo il quale l’economia internazionale passeggia allegramente, mentre si gode lo stato alterato di mercati ciclotimici a causa di abuso di magie monetarie.

La realtà sotterranea, che alcuni economisti chiamano New Normal, ma che di normale ha ben poco, visto che è fatta di tassi più o meno azzerati e stagnazioni secolari guidate da stagnazioni demografiche, questa realtà fatica ad emergere nel dibattito pubblico per la semplice circostanza che l’attenzione rimane tuttora concentrata sui corsi di borsa, da una parte, e sull’andamento stracco delle nostre economie, che tali corsi indirettamente influenzano per il tramite di aspettative auto avveranti divenute sempre più difficili da comprendere e distinguere dal continuo rumore di fondo. Passeggiare lungo i crinali dell’abisso ci rende ciechi.

Tutto ciò per dire che ogni tanto bisogna fermarsi e fare il punto, prendendo a pretesto i rari momenti di autocoscienza che qualche d’uno più avveduto ci propone. L’ultimo che mi è capitato sotto gli occhi è Luiz Awazu Pereira da Silva, vice direttore generale della Bis, che poco tempo fa ha parlato all’Eurofi High Level Seminar di Amsterdam (“A possible way out from the “New Normal”: Rebalancing fiscal-monetary policies by picking “Low-Hanging Fruits” to engineer more confidence“).

Non serve essere economisti per capire dove voglia andare a parare. Basta la conclusione che riprende un celebre detto di Antonio Machado. Quello secondo cui “non esiste un cammino” perché “il cammino si costruisce camminando”. E’ tutto qua. In questa evidente ammissione di incertezza che ricorda l’impotenza leggo un’indizio di salvezza per le nostre economie dissestate dalla ricchezza artificiale che ci ha nutrito abbondantemente in questi decenni e che ora svela il suo travestimento. Il suo essere una maschera, e per giunta costosa.

Lo scetticismo di cui da prova il nostro banchiere, che riporta con scrupolo delle numerose critiche e perplessità che stanno accompagnando l’odissea delle banche centrali in questo New Normal, ci dice pure che anche ai piani alti dell’economia applicata stanno iniziando a mettere in discussione il senso e il funzionamento della politica monetaria. Aumenta la coscienza, insomma, che così non si può andare vanti a lungo. Come scriveva Einaudi più di ottant’anni fa, si possono pure smettere di pagare gli interessi sul capitale, ma così si chiede al capitalista di non esserlo più. E questo sta già succedendo a milioni di risparmiatori, sostanzialmente privati di un mercato obbligazionario ragionevole, e sta succedendo a fondi pensione e assicurazioni, che devono trovare asset capaci di remunare i contratti in un mondo a tassi negativi.

Ma soprattutto crescono i timori che questo sforzo titanico e storico serva poco o nulla. Le osservazioni sugli scarsi esiti della politica monetaria raggiunti in Giappone e in Europa, sembrano fatti apposta per alimentare la paura peggiore. Perché tolta la politica monetaria – “l’unica palla nel campo” – cosa resta?

L’altra metà del cielo, la politica fiscale, somiglia a un pollaio ingestibile dove si agitano facili populismi, che il nostro banchiere non tralascia di ricordare, e sostanziali difficoltà che sono contabili – chi ha non spende e chi vorrebbe spendere non ha – e insieme politici. Le famose riforme strutturali richiedono tempo e soprattutto risorse. E non è detto peraltro che bastino. Anche quella che la vulgata definisce come la panacea del male della contemporaneità – gli investimenti – deve essere utilizzata avendo accortezza del come, del dove e soprattutto del quanto. E non è detto che basti a stimolare la crescita.

La modesta proposta del nostro banchiere – modesta per sua stessa ammissione – è quella di individuare dei “low-hanging fruits projects“, che è il modo inglese per dire piccole cose che si possono fare rapidamente e con poco sforzo ma che hanno un alto ritorno in termini di TFP (total factor production). Inutile fare esempi: in un certo paese può essere il sistema giudiziario, in un altro l’istruzione. Conta il fatto che si tratta di cose che devono essere affrontate localmente, magari col conforto delle istituzioni internazionali. E ciò vuol dire che alla fine dei conti il problema della crisi rimane un problema di tante località che non riescono a suonare uno spartito comune. L’economia internazionale suona come un’orchestra stonata, mentre le banche centrali, che al più distribuiscono tonici, si sono trovate a fare i direttori d’orchestra, ma senza bacchetta.

Non ci sono cammini perciò. Politica monetaria e politica fiscale risultano, per versi differenti, egualmente impedite. Il cammino dobbiamo farcelo da soli. E smettere di sperare che ci penserà qualcun altro.

Twitter: @maitre_a_panZer


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