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D’Alema e Renzi? Dura minga

Non sono iscritto al Pd e mi definisco un “renziano riluttante” (da qualche tempo, molto riluttante). Al contrario di Massimo D’Alema, tuttavia, il quale lo dirà solo all’uscita dal seggio (portavoce nuntiavit), da elettore romano non ho nessuna difficoltà a dichiarare che domenica voterò Roberto Giachetti. Infatti, mi sembra la persona più affidabile, più esperta e più competente per affrontare quella che comunque resta una “missione impossibile”. Almeno fino a quando il futuro sindaco, con il coraggio e la determinazione che solo i santi possono avere, non oserà abbattere quel moloch pubblico e assistenzialista da cui è divorata la “città eterna”.

Nella sua rubrica quotidiana per i lettori del Foglio (List), Mario Sechi ieri ha scritto una splendida analisi di una catastrofe che non è solo economica e ambientale, ma perfino antropologica e culturale. Vale la pena citarne questo passaggio: “Roma è sommersa dalla spazzatura, da scioperi nei trasporti che sono l’unica cosa regolare nell’irregolarità del servizio pubblico, ma nessuno dice che per Ama e Atac non basta una semplice riorganizzazione, occorre una pesantissima ristrutturazione e, nel caso della società di trasporto, sarebbe meglio chiudere tutto, fare una bad company e ripartire con qualcosa di nuovo. Non è un problema solo di manager, dirigenti e capi di settore, i dipendenti nel caos ci hanno marciato (e mangiato) alla grande. Ventiduemila in Comune, oltre trentamila nelle società partecipate. Tra loro ci sono ottime persone, ma su questa massa informe che incassa tutti i mesi uno stipendio pagato dal contribuente pende l’accusa della realtà: provate a osservare bene quello che vi circonda quando passeggiate nella Capitale. Basta e avanza per comporre il numero della polizia. Doveva restare il Commissario, il voto andava sospeso, a Roma serviva una gestione straordinaria lunga, dura e senza pietà”.

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D’Alema e Matteo Renzi sono ormai ai ferri cortissimi, e non credo che si tratti di una tempesta in un bicchier d’acqua. Non ci sono in ballo soltanto l’Italicum e la riforma costituzionale, il Jobs Act e financo la politica fiscale del governo. Ci troviamo di fronte a un dissenso che investe l’idea stessa di quella “democrazia del leader” a cui guarda il presidente del Consiglio. Un dissenso che ormai prelude a clamorose rotture. Del resto, per le minoranze Pd non deve essere divertente sentirsi inutili fino all’irrilevanza politica. E nel Pd di Renzi il loro destino è questo. La sinistra interna vuole più collegialità e meno monocrazia. Ma la tradizione storica di cui essa è (sedicente) erede ha conosciuto due capi personali – Palmiro Togliatti e Enrico Berlinguer – che certo non comandavano meno di Renzi. Solo che entrambe le leadership erano comunque sottoposte alle regole e alla sorveglianza della gestione oligarchica del partito, che oggi non esistono più. Tutti continuano a negarlo, ma il rischio di una scissione a questo punto c’è. Perché, come diceva un bravissimo comico milanese, Tino Scotti, “dura minga”. Del resto, un po’ di chiarezza nel Pd non guasterebbe. Ex malo bonum, diceva Agostino d’Ippona.

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