Sono giorni nei quali si torna a parlare con insistenza di importanti riforme istituzionali che riguardano l’ordinamento tributario, in particolare per quanto riguarda riscossione dei tributi e processo. Se nell’ambito degli addetti ai lavori il dibattito, pur influenzato da umori e da pregiudiziali, tende a essere tecnico, le esigenze della comunicazione politica semplificano il messaggio, talora, in modo inaccettabile: ci si chiede insomma se abbia senso parlare di riforme importanti, ai cittadini, indicando come obiettivo l’istituzione (Equitalia nel caso della riscossione; il discorso è appena più sfumato per le commissioni tributarie rispetto al processo) come se il male, i difetti, fossero nell’istituzione in sé, piuttosto che nei contenuti e, semmai, nelle modalità organizzative.
Per la riscossione (sulla quale, in termini analoghi, ero intervenuto nel luglio 2014, ipotizzando quale assetto avrebbe potuto avere il “dopo Equitalia”), è evidente che la questione della soppressione di Equitalia non è il nodo centrale del problema, quanto meno se non si ha chiaro dove il sistema andrebbe a parare, dopo aver eliminato la società pubblica incaricata della riscossione.
Soppressa Equitalia, avremmo una riscossione giusta ed efficiente, e magari nel contempo mite?
I mali della riscossione sono nella società pubblica, o nei nodi non sciolti circa l’effettività che deve avere la riscossione dei tributi?
Obiettivamente, non credo sia possibile dire che l’origine dei mali, oppure uno dei mali stessi, sia costituita da Equitalia; a undici anni dalla legge che la istituiva, l’idea di una società pubblica più vicina agli enti impositori è tuttora valida, semmai il processo va completato affidando direttamente agli enti impositori, attuali soci di Equitalia, la riscossione.
Ma se alla pubblica opinione si dice brutalmente (e soltanto) che Equitalia verrà meno, il messaggio è pericoloso, perché sembra voler anticipare che in futuro non ci sarà riscossione coattiva.
O forse vuol dire che la riscossione sarà più aggressiva ed efficiente? (é improbabile).
O forse si vuol dire che la riscossione diventerà lenta e graduale, in modo da finanziare essa stessa cittadini e imprese in difficoltà? (anche questo non è probabile).
Insomma il messaggio è fuorviante, tanto più se diretto ai non addetti ai lavori, se viene indirizzato verso un’istituzione che peraltro non risulta avere responsabilità soggettive particolari, senza alludere alle direzioni che si intendono prendere sui problemi concreti.
Lo stesso discorso vale per il processo tributario, dove il problema è ancora più profondo, in termini di contenuto delle scelte future, e il dibattito rischia invece di ridursi a un pro o contro le Commissioni tributarie. Che, nella loro specificità, hanno dato risposta alla domanda di giustizia tributaria, e lo hanno fatto nonostante limiti gravi del modello organizzativo e uno scarsissimo investimento dello Stato sul loro funzionamento.
In teoria, tutte le scelte sono possibili, anche se molte di esse implicano probabilmente il passaggio attraverso una legge costituzionale. Quello che bisogna avere chiaro è che le anomalie imputabili al modello attuale non ne impongono tanto l’abbandono, quanto una riforma, secondo criteri che non potranno essere tanto diversi, sia che restino in attività le Commissioni, sia che il loro compito venga affidato a istituzioni giurisdizionali diverse.
In realtà, se si considera che un ruolo determinante, nelle Commissioni, è svolto già ora da giudici togati, si comprende come il rimedio ai mali (che sono qualitativi, e non quantitativi) non possa consistere nella sola soppressione delle Commissioni e nel passaggio ad una magistratura togata.
Diverse, sono state, in questi giorni, le prese di posizione a favore di una evoluzione, e non di una soppressione, delle commissioni: cito tra i tanti gli interventi di Cesare Glendi nell’editoriale del 7 maggio su Ipsoa.it, quello di Ennio Attilio Sepe, su ilfisco n. 23 del 2016, il documento dell’Associazione italiana tra i professori di diritto tributario.
In realtà, quello che occorre garantire, è essenzialmente la presenza di giudici di ruolo nelle Commissioni, pur conservando la attuale pluralità delle professionalità. La trasformazione in magistratura professionale con giudici di ruolo potrebbe essere graduale, per attenuare l’impatto di spesa: essa dovrebbe, a mio avviso, riguardare in primo luogo le presidenze, che devono essere affidate a giudici tributari a tempo pieno, che siano presenti e vigili nell’istituzione e governino gli essenziali snodi preparatori alla trattazione delle cause, e dovrebbe poi vedere la graduale sostituzione dei giudici che cessano dalle funzioni con giudici di ruolo, assunti in base a concorsi aperti a laureati in giurisprudenza e in economia che possano essere vinti anche da giovani neolaureati, che in tal caso inizierebbero la carriera di giudici tributari.
Insomma, il problema non è il giudice speciale in sé – del quale va accentuata, anche sul piano dell’immagine, l’indipendenza – ma il suo funzionamento e l’insieme delle regole sullo status dei membri delle Commissioni.
In ogni caso, basta leggere la recente circolare n. 16/E del 28 aprile scorso dell’Agenzia delle Entrate, per cogliere come la complessità delle attività istruttorie demandate all’amministrazione finanziaria e la forte evoluzione in corso del rapporto tributario, rendano imprescindibile che la gestione delle liti sia affidata ad un giudice (quale può essere quello amministrativo) che sappia valutare anche la correttezza dell’agire della pubblica amministrazione (Corte Costituzionale, sentenza n. 204 del 2004).
Da quella circolare si può cogliere anche qualche auspicio per un futuro a medio termine, che veda realizzata la vera soluzione dei problemi con una drastica diminuzione dei processi tributari, in un contesto nel quale l’amministrazione finanziaria sappia trovare nel modulo consensuale la definizione del rapporto con il contribuente, sviluppando e portando a compimento l’evoluzione appena avviata.