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Ecco come e perché l’Europa va in ordine sparso nel dopo Brexit

Se c’è un’occasione in cui si capisce poco di Europa è precisamente durante i periodici vertici dei capi di Stato e di governo. L’agenda è sempre fitta di argomenti, proposti da una serie di consigli (dei ministri) e soprattutto da quello Affari generali, preparato da Coreper e dal gruppo Antici. C’è troppa confusione:  28 capi di Stato e di governo, ministri, staff, rappresentanze, giornalisti, cuochi e  fotografie. Questa volta si è aggiunto il referendum britannico e la concomitante  sessione del Parlamento europeo. Di solito si torna a casa o in ufficio, si rileggono per un po’ le conclusioni, si fanno le riunioni per venirne a capo. L’informazione giornalistica per lo più lascia cadere. Questa volta invece, grazie alla Brexit, il quadro sembra più leggibile.

IL DOCUMENTO FRANCO-BRITANNICO

La proposta franco-tedesca dopo-Brexit (qui il pezzo di Formiche.net) è stata bene accolta dall’Italia, che si è allineata, è parsa non estranea o almeno si è ritrovata nei contenuti. Se ne è avuta notizia nelle dichiarazioni e nei tweet di Matteo Renzi, prima e dopo il vertice con François Hollande e Angela Merkel di lunedì 27 giugno a Berlino, come di Pier Carlo Padoan e del presidente della Repubblica  Sergio Mattarella.

Il documento è stato portato il 26 giugno dal ministro francese per gli affari esteri Jean-Marc Ayrault alla riunione del gruppo di Visegrad, i ministri degli Esteri di Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria. Il ministro degli esteri polacco, Witold Waszczykowski non ha gradito, dicendo a nome di tutti che “un’integrazione rapida, un’integrazione frettolosa” sarebbe un cattiva risposta alla Brexit. Il ministro degli esteri ceco, Lubomír Zaorálek, il 26 giugno, in televisione, aveva persino chiesto le dimissioni del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. Il documento franco-tedesco fa riferimento proprio a questi Paesi, quando parla di “differenti livelli di ambizioni” riguardo al processo di integrazione.

IL CONSIGLIO EUROPEO

Al consiglio europeo del dopo-Brexit si è arrivati con il solo documento franco-tedesco che ha fornito una strada per il futuro e tranquillizzato un po’ tutti. Letto da poche ore, richiede tuttavia del tempo per essere elaborato dalle coscienze e dalle cancellerie. Qualche screzio, come tra Nicolas Sarkozy e Jean-Claude Juncker alla riunione del Ppe prima del consiglio, sulle riforme in materia d’immigrazione, non toglie il fatto che siano tutti abbottonati, o almeno prudenti , in questi giorni di riunioni.

Lo schema per il futuro è semplice: integrazione rafforzata – in formato “compact” – per i Paesi che lo vorranno (cioè pochi) su tre capitoli, cioè migrazioni e asilo, sicurezza interna ed esterna, governo democratico, sociale e convergente dell’eurozona. Anche l’attuazione è chiara, perché ogni capitolo corrisponde a proposte già note (Pnr, guardia costiera europea ecc.). Dal punto di vista politico, invece, i discorsi sono tutti aperti. Bisogna vedere chi non ci sta, e non si mette poi ad ostacolare temendo – dopo aver tanto criticato – di finire in un girone di serie B, come Polonia o Ungheria, e chissà chi altri. Bisogna capire cosa fare dell’Unione attuale, se ci saranno politiche ri-nazionalizzate o ammorbidite.

I TEMPI DELLE RIFORME

Bisogna soprattutto valutare i tempi complessivi, pensando alle elezioni in Germania e Francia del 2017. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha annunciato un primo vertice a Bratislava, a settembre 2016, proprio quando i Conservatori britannici dovrebbero trovare un loro leader. Sembrano già tempi lunghi: con le pressioni in corso, all’interno, a est e a sud.

Alla sessione di questi giorni del Parlamento europeo è apparso chiaro che non si può prendere tempo. Difficile mantenere nell’emiciclo un Nigel Farage che auspica altri Paesi in uscita, difficile immaginare un blocco dell’attività parlamentare, o atti ostili all’interno. E’ anche difficile gestire la nomina di un nuovo commissario britannico, forse a settembre, e con quali deleghe, e poi una presidenza britannica dell’Unione nel 2017. E per quanti mesi si andrà avanti, e in quali formati, e con quale rallentamento dell’Unione.

UN’EUROPA INDEBOLITA, PROPRIO ADESSO

Un’Europa incerta arriverà, tra una decina di giorni, l’8 e il 9 luglio 2016, al vertice biennale della Nato, a Varsavia. Sarà un’occasione speciale, che richiede grande unità, non bagagli di problemi. Dovrà approvare quattro battaglioni multinazionali permanenti, in Polonia e nei tre Stati baltici, otto mini quartieri generali, e  una nuova vivacità anche nel Mediterraneo. Il 27 giugno, il segretario di Stato americano John Kerry ha visto a Bruxelles Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, ma anche Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato. Il punto è che il contributo e la visione atlantica del Regno Unito sono usciti dalle stanze dell’Unione europea.

Dunque, il 28 giugno, Stoltenberg è andato al Consiglio europeo a portare tre messaggi. Il primo è che la Nato auspica un’Unione europea solida, che la Strategia globale di Mogherini va benissimo ed è utile, pur di evitare duplicazioni. Il secondo è che il ruolo e la funzione del Regno Unito non cambia: è un alleato solido e impegnato, che vale un quarto delle spese tra gli alleati europei. Il terzo  messaggio è che con la Brexit la cooperazione con l’Unione europea va non solo mantenuta, ma rafforzata.

Sembra poco, ma vuol dire che la piattaforma di difesa non cambia, almeno per il momento, almeno fino a Varsavia. Poi, per la Nato, come per l’Unione europea e per il Regno Unito, ci sarà da lavorare.


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