Nuovi dati sono stati diramati giovedì scorso dalla Corte dei Conti in merito ai recuperi introitati nel 2015 dal contrasto all’evasione fiscale. In questo breve scritto si è preferito riassumere le principali novità in tre schede sintetiche, qui allegate in calce, e a cui si fa rinvio.
Colpisce, anzitutto, il dato (inedito) dei sedici miliardi di imposte non versate all’atto della presentazione della dichiarazione (euro 15,788 mld). Il dato si riferisce all’anno d’imposta 2013 (pagina 45, Tavola 2.21), e testimonia inoltre di una preoccupante tendenza che è in forte accelerazione, dato che pochi anni prima (il 2009) la cifra della morosità da dichiarazione era di “soli” undici miliardi.
L’ammanco conferma ancora una volta che la nuova frontiera della evasione fiscale è l’evasione “da riscossione”. Un fenomeno di una gravità inaudita, che da oltre due lustri si allarga a macchia d’olio ogni anno di più, anche (e soprattutto) attraverso forme occulte. Tutto questo nella più totale impotenza (ma, anche, nella più totale indifferenza) degli organi preposti alla governance del Fisco italiano.
Il fenomeno, peraltro, è fortemente incentivato da un dato ormai consolidato. Ed è la totale inconcludenza di Equitalia che è debole con i forti e forte con i deboli. Essa funziona solo come strumento di deterrenza, giammai come canale vocato ad assicurare introiti. Basti pensare a quanto è risibile il tasso medio annuo di incasso: 1% del carico affidato in riscossione (vedasi Corte dei Conti, Relazione sul rendiconto cit. pagina n. 77).
Ma c’è un secondo dato che può aiutare a comprendere perché Equitalia fa paura solo ai “fessi”, mentre è un semplice monstre di cartone, nei confronti di furbi e forse delinquenti.
Ammonta a 314 miliardi la cifra degli addebiti per i quali Equitalia nulla ha riscosso fino a oggi e nulla prevede di riscuotere in futuro (Audizione dell’amministratore delegato di Equitalia in Commissione finanze Senato del 9 febbraio 2016). Al punto che, al netto di tutte le altre partite “fittizie”, secondo il rappresentante di Equitalia le posizioni “effettivamente lavorabili” (cioè, quelle tuttora aggredibili con proficuità), sono pari a 51 miliardi (5% del carico lordo iniziale di oltre mille miliardi).
Peccato che nessuno riveli che da oltre 15 anni l’esattore si sottrae a un obbligo di legge che è quello di chiedere (e ottenere) dal creditore il cosiddetto discarico delle quote inesigibili. In altre parole, chi stabilisce se la mia cartella di Equitalia è finita sepolta nell’elenco (accantonato) dei 314 miliardi piuttosto che nell’elenco (“vivo” e ancora da compulsare) dei 51 miliardi? Non si sta mettendo in dubbio, beninteso, la lealtà istituzionale di Equitalia e, men che mai, quella del suo apprezzabile amministratore. Il punto è che per desuetudine (le norme sono ancora tutte vigenti) il sistema si è letteralmente intasato per overbooking, affogando sotto la pressione di numeri allucinanti (“da marziani”), al punto da perdere ogni argine di buon senso per la tutela degli interessi erariali.
Fatto sta che nessuno è più disposto a prendersi la responsabilità di attestare formalmente che nell’elenco dei 314 miliardi fasulli non siano finite persone tutt’altro che nullatenenti: né Equitalia, né l’Agenzia delle Entrate, benché esse, da sempre, ne siano obbligate per legge. Su una mole così impressionante di soldi (pubblici) in gioco, come si fa, in mancanza di procedure di garanzia certe, ad escludere abusi, favoritismi e deviazioni (alle spalle della collettività, ma anche, alle spalle delle stesse strutture preposte alla gestione)?
Qui le tabelle con tutti i dettagli.