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Hillary, pioggia d’endorsement. Trump, tempesta di polemiche

Assegnate le nomination, sale di tono il tormentone dei vice che faranno ticket con Hillary Clinton e Donald Trump: molti i nomi già indicati, talora con esercizi di fantasia e/o di autopromozione. E, intanto, sui due candidati, specie su Hillary, piovono endorsement politici significativi: dopo quelli del presidente Obama, del suo vice Biden e della senatrice Elizabeth Warren, l’ex first lady incassa quello del reverendo Jesse Jackson, leader afroamericano dei diritti umani.

Parlando a Chicago, Jackson, aspirante alla nomination nel 1984 e nel 1988 ha detto di avere fiducia che la Clinton tutelerà gli interessi delle comunità ai margini, i rifugiati, gli immigranti, i poveri, e ha auspicato che anche Bernie Sanders la sostenga.

Meno liscia la situazione fra i repubblicani, dove lo speaker della Camera Paul Ryan ha ammesso d’avere alla fine dato l’endorsement a Trump solo perché sollecitato da molti deputati nei cui collegi gli elettori repubblicani sono convinti sostenitori del magnate. Lo scrive il Wp, citando fonti anonime presenti nello Utah a un consulto a porte chiuse fra circa 300 grandi donatori e manager filo repubblicani, organizzato dal candidato 2012 alla Casa Bianca Mitt Romney, ora fra i più ostili alla candidatura Trump.

Ryan è stato incalzato da interlocutori che gli chiedevano come abbia potuto dare il suo sostegno allo showman, criticato per il temperamento e per la campagna elettorale divisiva. Meg Whitman, presidente di Hp, avrebbe definito Trump l’ultimo d’una serie di demagoghi, citando Hitler e Mussolini.

Per convincere i recalcitranti, il magnate dell’immobiliare ci va giù pesante: “Unitevi dietro di me, o il partito repubblicano rischia di perdere Camera e Senato”, dove attualmente ha la maggioranza, è il monito lanciato in un comizio a Tampa, in Florida. Trump si dice fiducioso di potere conquistare la presidenza e avvisa che i seggi del partito al Congresso potrebbero essere a rischio, se i repubblicani non si coagulano intorno a lui. “Il partito repubblicano deve essere forte e intelligente, altrimenti io vincerò, ma un sacco di altre persone no”, avverte.

Un concetto che tocca deputati e senatori repubblicani anche nel portafoglio, perché le campagne costano. E Trump ha già avuto modo di dire, in un’intervista a The Hollywood Reporter, di avere speso per le sue primarie 50 milioni di dollari del suo, mentre “altri hanno speso 230 milioni e sono arrivati ultimi” – un riferimento non chiaro, che potrebbe riguardare Jeb Bush o Ted Cruz  –.

Trump continua a insistere sul fatto d’avere “cominciato a lavorare per la convention” repubblicana a Cleveland nella terza decade di luglio, a sostenere di essere “alla pari se non in vantaggio rispetto alla Clinton nei sondaggi” e a vantare il record di voti alle primarie nella storia repubblicana da lui stabilito.

Il magnate si è già portato avanti anche con i compiti presidenziali: ad esempio, ha stilato una lista di 11 candidati, tutti profondamente conservatori, per sostituire il giudice Antonin Scalia, improvvisamente scomparso a marzo, alla Corte Suprema degli Stati Uniti. La lista, resa inusualmente pubblica, comprende sei giudici federali e cinque giudici di Corti Supreme statali, tutti anti-abortisti e sostenitori della “libertà religiosa” che consente a individui ed aziende di dare, o meno, i propri servizi sulla base del loro credo.

(post tratto dal blog di Giampiero Gramaglia)

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