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Il PD, Renzi e il cambiamento che ci serve

Ed eccoci al momento consueto delle riflessioni a “freddo” dopo la cocente sconfitta del PD a queste elezioni amministrative 2016. Una sconfitta palese al primo turno, amplificata ai ballottaggi. Il titolo di questo articolo mette insieme i tre grandi elementi dell’analisi: il ruolo e il senso di questo Partito Democratico, il ruolo e il senso di Matteo Renzi, Segretario Nazionale e attualmente anche Presidente del Consiglio, il significato della parola “cambiamento“.

Il PD

Il Partito Democratico amministrava 90 comuni e a questa tornata elettorale ne ha persi la metà passando a 45. Si tratta dell’unico partito a perdere terreno, in modo consistente. Tutti gli altri hanno guadagnato qualche cosa. In base all’analisi di Diamanti, infatti, la Lega Nord passa da 5 a 7 amministrazioni, il Centro-Destra da 31 a 33, il M5S da 0 a 19, la Destra da 0 a 4 e infine, suppongo siano liste civiche, la voce “Altro” da 12 a 30. L’unica formazione che non perde e non guadagna è quella della Sinistra che ne aveva 5 e le ha mantenute.

Cosa ci dicono questi dati? Sicuramente che c’è voglia di cambiamento, concetto su cui tornerò, e che queste amministrative sono state fortemente influenzate da una discussione politica più generale. Solitamente il voto locale è disgiunto da riflessioni di carattere nazionale. I comuni sono caratterizzati da un’alta prossimità tra politici e cittadini e dunque c’è una relazione diversa, forte per certi versi genuina. A questa tornata ha pesato molto lo scontro politico a livello nazionale, inutile dire il contrario: Torino, che è una città amministrata molto bene ne è la prova. Milano, dove il PD vince invece ma di misura anche, perché l’amministrazione Pisapia è stata un laboratorio positivo per la città.

Il volto del Paese è cambiato in modo sensibile. Non essere capaci di riconoscere questa trasformazione a livello locale significa essere politicamente gravemente miopi. Per questo non mi convince per nulla l’affermazione che ho letto secondo cui  sono i “volti giovani” del M5S (Raggi e Appendino) ad aver convinto. Se la questione si riduce a un fattore estetico c’è poca speranza per il PD di riprendere forza e di tornare ad essere credibile e capace di vincere. Ma tant’è.

Matteo Renzi

Ed eccoci al cuore della questione: la figura di Renzi in questa discussione. Possiamo scegliere di nasconderci dietro un dito e dire che l’operato del governo, le politiche volute fortemente da Renzi e dai suoi ministri, non hanno avuto alcun impatto su queste elezioni, ma sarebbe non solo ingenuo, ma anche e soprattutto non vero. La dimensione nazionale ha giocato un ruolo fondamentale: Matteo Renzi ha messo la faccia su tutti i confronti elettorali principali. Si è trovato coinvolto direttamente o indirettamente, attraverso ministre e ministri e/o deputati di spicco della sua area, in tutte le campagne elettorali che si sono tenute in queste ultime settimane. A Napoli il PD è stato scaraventato fuori dal ballottaggio, con una candidata che è stata fortemente appoggiata da Renzi. A Roma, Roberto Giachetti, è stato la punta di diamante di questa sfida e anche volendo è  difficile dire che la dimensione nazionale non c’entra, dopotutto è il Vice-Presidente della Camera dei Deputati in quota PD. A Milano Sala è espressione di questo tentativo di creare un partito che vada oltre il recinto della sinistra: un tentativo fallito perché è solo grazie al sostegno esplicito della tanto odiata e denigrata sinistra, da parte di Renzi, che Sala ha vinto di poco sull’avversario Parisi. A Cagliari, dove il PD ha fatto l’alleanza con la sinistra ha vinto al primo turno, a Bologna al ballottaggio Merola ha vinto solo grazie ai voti confluiti dai gruppi di sinistra. Lo ha ribadito Pierluigi Bersani in un’intervista oggi al Corriere e ha ragione.

C’è un problema serio di leadership. In che senso? Cercherò di essere breve, a scapito dell’esaustività, ma ho già scritto su questo e continuerò a farlo, fino a quando sarò possibile.

1) Il doppio ruolo Segretario e Presidente del Consiglio non regge alla prova dei fatti. Sono due figure che entrano costantemente in contrasto, perché esprimono aspettative diverse e dovrebbero seguire logiche diverse. E per evitare questo contrasto Renzi ha fatto una scelta: ha soffocato il ruolo di Segretario per favorire quello di Presidente del Consiglio. Lecito, coerente rispetto a quello che intende fare, ossia governare l’Italia, ma allora si pone un problema serio e questo è esploso sia nelle Regionali 2015 sia oggi, con queste amministrative.

2) Il Partito è una struttura fondamentale del sistema democratico parlamentare. Un elemento centrale nella democrazia rappresentativa. Si tratta di una struttura da curare, ammodernare, sostenere al fine di essere sostenuto. Senza questa struttura non c’è leadership che tenga, non avrà successo. E fino a quando ci saranno opinionisti come Rondolino che sostengono che il partito è una zavorra per il “renzismo” (elemento di personalizzazione ulteriore che discuterò dopo) che vengono ascoltati dalla classe dirigente del PD, non ci sarà alcuna possibilità né per Renzi né per il partito di diventare vincenti, credibili e capaci di innovare, come si sente dire tanto spesso.

3) lo stile di comunicare di Renzi è diventato un boomerang per la sua stessa azione politica. Le campagne elettorali sono state condotte in un modo che ha rasentato il ridicolo a Roma se non l’assurdo. Come si può pensare di fare una campagna elettorale per la città parlando delle Olimpiadi? Ignorando che le olimpiadi possono essere un elemento di sfiancamento per la città e non certo di sviluppo. E come si può pensare di essere credibili passando il tempo  a delegittimare l’avversario? Certo, la tendenza è assai consolidata: tutto è cominciato con la delegittimazione di pezzi del proprio partito e del proprio elettorato. E questo è l’altro grande problema che si collega alla figura di Renzi: ha voluto rottamare, ma ha riciclato. Pescando anche in aree estranee alla storia della sinistra e del PD. Ha creato alleanze ballerine per tenere in piedi un progetto di governo che di volta in volta, per i compromessi indispensabili fatti per sostenerla, questa barchetta, hanno scoraggiato, infastidito e deluso ampie fette dell’elettorato proprio del Centro-Sinistra. Tra gufi e paludi, freni e lanciafiamme si è perso i senso del confronto democratico, pacato e serio che ogni comunità politica deve avere per esistere. Già, la comunità politica, quella del PD e del Centro-Sinistra, sfiancata, sfilacciata e completamente da ricostruire, laddove è ancora possibile.

4) il personalismo. Si tratta di una tendenza che non nasce con Renzi. Teorizzata già da Crouch nel suo “Postdemocrazia” e messa in atto da Berlusconi nell’ultimo ventennio e in altri Paesi da altri leader Politici, ha torvato anche nel centro sinistra una sua espressione. Ma questo è un approccio che cozza con l’idea di comunità da cui il PD è nato. C’è il motto bello dell’Unione Europea che dovrebbe essere lo stesso per il PD: uniti nella diversità. Il profilo alto di un leader politico si misura, a mio avviso, nella capacità di tenere assieme le varie anime di una comunità senza perdere né di incisività né di capacità di prendere decisioni. Molte cose possono essere fatte, dopo una discussione seria, in modo democratico. E allora ci sarebbe un sostegno della struttura che può solo aiutare e mai essere d’intralcio al ruolo di un leader. Il leader senza struttura e popolo rappresenta chi è lotta per cosa? E poi, non posso non sottolineare il ruolo dei novelli Paolo da Tarso convertiti sulla via per Firenze. Fintamente convertiti ovviamente. Opportunismi e calcoli personali indeboliscono l’azione innovatrice. Altro che il Partito o le sue minoranze critiche. Quelle sono la vitalità necessaria a fare discussioni serie che possano condurre a risultati migliori. Bisogna capirlo però.

5) La narrazione non coincide con la realtà. Si tratta dell’effetto del vivere rinchiusi in torri d’avorio e lontani dalle persone, specie quelle che dovrebbero rappresentare il “popolo” di riferimento. In quanto Partito (dal latino pars ossia “parte” non “tutto”) il PD deve ritrovare il suo ruolo: rappresentare qualcuno e qualche cosa. Al governo ci si arriva portando avanti idee e istanze. La sfida vera che non è stata per niente vinta, ma nemmeno cominciata, è convincere quante più persone possibile della bontà delle idee, dei valori e dei progetti che si intendono propagandare. Non è andare dietro agli umori del momento e di questo o quello, in base all’opportunità del momento, per far tornare i conti nell’aritmetica di fazioni, poltrone e votazioni. L’aspirazione di un partito è diventare maggioranza nella popolazione, ma avendo una bussola chiara di riferimento: valori generali che poi si dovranno tradurre in pratiche politiche. Non è stato fatto. Si sono messi da parte alcuni valori, fondamentali, per avvicinarsi a componenti tradizionalmente distanti. Si tratta di un paradosso. E se la strada resta questa, il partito evapora, perché perde la base ideale di riferimento. E allora che senso avrebbe?

Cambiamento

Quindi, il concetto di cambiamento, credo si esprima da sé a questo punto. Cambiare? Sì, molto bene, ma rispondendo ad alcune domande: con chi, come, in che direzione, quanto e quando, per realizzare cosa e guardando a chi? Una discussione politica seria, in un sistema che prevede strutture, ruoli di responsabilità, congressi e assemblee, dovrebbe ruotare, a mio modesto avviso, attorno a queste questioni. Un cambiamento fine a se stesso, magari di facciata, estetico appunto, non serve a nessuno e non porta da nessuna parte. La riflessione seria comporta spese di tempo ed energie. La democrazia ha un costo, materiale e immateriale, ma è solo così che si raggiungono risultati concreti, coerenti e positivi.

Serve ora un cambiamento radicale, sì. A partire da come il Segretario Nazionale interpreta il suo ruolo di capo di un partito politico e dal valore che dà alla struttura che lo sostiene. Se non cambia approccio, linguaggio e il modo di rapportarsi all’interno di questa comunità in disfacimento, allora il passo è segnato: the end. E allora non sarà la fine del mondo, sarà solo la fine dell’esperienza del PD. E poi che accadrà? C’è un campo ampio lasciato a se stesso che deve essere riorganizzato se non addirittura ri-fondato. A chi spetta l’onere di provarci se non alla dirigenza attuale assieme a tutto il corpo politico del PD?

Conclusione

L’ho fatta lunga. Mi scuso. Ma ho comunque cercato di trattenermi, perché le questioni che avrei voluto toccare erano molte di più. Si tratta di una vera sfida ora, da cui dipende in prima battuta la tenuta di un partito, certo, ma che a livello generale riguarda anche il senso della democrazia rappresentativa del Paese. Una riflessione che può essere senza problemi trasposta ad altri casi e altri partiti. Naturalmente con intensità e riferimenti del tutto diversi. Ma una democrazia rappresentativa sana dovrebbe avere elementi di base condivisi. Il M5S nato come movimento di protesta si è fatto oggi partito che rappresenta e che si organizza. Si tratta di un qualche cosa di fondamentale che stravolge tutto. Anche su questo tornerò, a parte, perché c’è una riflessione da fare anche sul Movimento fondato da Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo. Che mi sembra importante e interessante. Ma questo è un altro tema.

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