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Vi racconto l’impatto delle parole della Fed sull’economia

La scorsa settimana ho incontrato i clienti americani sull’East Coast. Pur essendo eterogeneo, il sentimento era prevalentemente prudente. A pesare non vi è solo l’andamento dei mercati, ma anche le questioni politiche. La maggior parte dei clienti con cui ho parlato pensano che Hillary Clinton dovrebbe vincere le elezioni presidenziali, dato il forte consenso di cui gode il Partito democratico negli Stati più urbanizzati e popolati. Tuttavia, pochi avevano previsto un anno fa che Trump potesse essere il candidato del Partito repubblicano e Trump ha ora battuto il record di voti ottenuti nelle primarie repubblicane. Il malcontento nei confronti della vecchia classe politica sta crescendo dappertutto. Prima della crisi finanziaria, la globalizzazione sembrava inarrestabile ma ora il protezionismo e l’isolazionismo potrebbero raccogliere un favore crescente.

In merito ai temi macro, i miei meeting hanno confermato che il tema della reflazione è di nuovo al centro dell’attenzione degli investitori. Durante il mese di maggio, gli investitori hanno versato 850 milioni di dollari nei fondi obbligazionari indicizzati all’inflazione Usa. Inoltre, risulta più evidente che l’economia statunitense stia accelerando come dimostra, ad esempio, la spesa reale che è aumentata oltre le attese ad aprile. Nonostante il dato lievemente al di sotto delle attese, relativo alle retribuzioni di maggio, indichi che gli sviluppi reflazionistici a livello globale potrebbero registrare una battuta d’arresto nel brevissimo periodo, la reflazione rimarrà un trend dominante dei prossimi trimestri.

Tornando al dato sulle retribuzioni di maggio, il valore registrato sembrava scioccante ma, una volta presi in considerazione gli elementi straordinari, i nostri modelli suggeriscono che la crescita dei posti di lavoro presenta un ritmo pari a 120.000, un valore certamente inferiore a quello dei mesi recenti ma in linea con il debole Pil del primo trimestre. Dopotutto, il mercato del lavoro segue ma non guida l’economia. Dovremmo registrare un ulteriore rialzo a settembre, qualora la creazione di posti di lavoro dovesse registrare un rimbalzo in linea con le nostre stime. Ad ogni modo, gli investitori e i mercati sembrano molto meno spaventati dall’idea di un rialzo dei tassi Fed Funds, rispetto a settembre o dicembre 2015: l’indice VIX, il dollaro, l’inflazione forward e i tassi a lungo-termine si attestano attualmente ad un livello inferiore rispetto al livello che avevano prima del rialzo a dicembre. Una situazione sicuramente riconducibile al fatto che gli operatori non credono che la Fed alzerà i tassi più volte nei prossimi anni.

Il tema della reflazione sta acquisendo importanza anche in Europa. La possibilità di un ulteriore rialzo dei tassi negli Stati Uniti nel terzo trimestre dovrebbe mettere pressione sul dollaro e un cross Eur\Usd più debole potrebbe supportare un rialzo delle aspettative d’inflazione nell’Eurozona nel breve termine. Appare sempre più chiaro che il processo di Giapponificazione dell’Europa è in atto. Tuttavia, i mercati giapponesi si sono sempre ben comportati finché la situazione a livello globale era positiva, con un contestuale deprezzamento dello Yen. Lo stesso ragionamento vale per il sistema bancario: le banche giapponesi continuano a essere scambiate con valorizzazioni estremamente basse ma generalmente hanno sovra-performato quando lo Yen si indebolisce. Nonostante il nostro strategist Ian Richards sia pessimista sui mercati azionari in generale, ha promosso le banche europee questa settimana.

Nel complesso, come già avvenuto nel 1999, il tema della reflazione è l’argomento chiave, un argomento che, da metà febbraio, non può essere ignorato. Questo tema ha preso piede con il rimbalzo dei prezzi delle commodity e si è esteso con l’aumento delle aspettative di inflazione a livello globale (anche se è avvenuto in ritardo in Europa e in Giappone). Nel secondo semestre, i mercati emergenti determineranno quanto durerà questo trend. Un dollaro più forte non è mai una buona notizia per i mercati emergenti e nel corso della scorsa settimana vi sono stati segnali che invitano alla prudenza. In primo luogo, i flussi netti di capitale verso i mercati emergenti sono stati circa pari a zero a maggio dopo gli elevati inflows di marzo e aprile (i continui flussi di capitale in entrata in Asia e America Latina sono stati annullati da quelli in uscita dall’Europa dell’Est e dal Medio Oriente; si veda il grafico sottostante). In secondo luogo, l’Elit, il nostro indicatore sul commercio globale, mostra che gli stimoli fiscali cinesi stanno avendo poco effetto sulle altre economie asiatiche.

Come ho scritto la settimana scorsa, è ancora troppo presto per valutare l’impatto negativo della Fed sui mercati emergenti e si può ancora trovare valore in alcuni di questi su un orizzonte di 5 anni. Sicuramente, nessuno vuole esporsi alle banche cinesi e alla maggior parte delle banche asiatiche a causa della bolla del debito cinese. Tuttavia, l’hard landing del settore industriale cinese è in corso. Il crollo dei prezzi delle commodity negli ultimi anni riflette il fatto che il resto del mondo è fortemente esposto alla Vecchia Cina. In tale contesto, sebbene i prezzi delle commodity dovrebbero rimanere bassi nei prossimi anni, il rimbalzo nel primo semestre indica che la correzione sia ormai passata. Questo non sarà di molto conforto per un’economia emergente come il Venezuela dove i problemi immediati sono più pressanti, ma se la Cina dovesse perdere tempo nell’adottare una soluzione definitiva, il sollievo connesso alla stabilità dei prezzi delle commodity a bassi livelli potrebbe essere più importante del rischio che la bolla del debito in Cina possa scoppiare nel breve periodo.

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