L’Italia non deve temere troppo la Brexit, almeno secondo Standard & Poor’s. Nell’indice di vulnerabilità alla Brexit (Bsi), appena elaborato dall’agenzia di rating, il nostro Paese si classifica al 19° posto, tra gli ultimi dell’Eurozona e al di sotto delle altre maggiori economie del Vecchio Continente, ossia Germania, Francia e Spagna. Gli unici a potersi preoccupare meno di noi, secondo S&P, sono gli austriaci. Lo studio (effettuato su dati 2015) prende in considerazione quattro fattori di rischio, espressi su una scala da 0 a 1: rischi per l’export, per il settore finanziario, per gli investimenti diretti e per la migrazione.
COME STA L’ITALIA
La ridotta vulnerabilità italiana, appena 0,4 punti totali, viene quasi interamente dall’export e dai rischi finanziari. Le esportazioni delle aziende tricolore nel Regno Unito valgono l’1,6 per cento del pil, valore inferiore al 2,8 per cento tedesco o al 2,7 della Spagna. Più consistente l’esposizione del settore finanziario: il totale di valore degli asset a rischio in caso di Brexit è pari al 13,2 per cento del pil, maggiore rispetto ai cugini francesi (10,6 per cento), ma comunque inferiore a Germania (22,7 per cento) e soprattutto alla Spagna (44,9 per cento). S&P vede, poi, come quasi trascurabili i rischi sugli investimenti diretti italiani Oltremanica (appena lo 0,2% del pil) e sugli emigrati a Londra e dintorni (la migrazione bidirezionale si ferma allo 0,4 per cento della popolazione).
I PAESI PIU’ VULNERABILI
Come accennato, le altre principali economie dell’area euro sarebbero più sensibili a un’eventuale Brexit. Sia la Francia sia la Germania totalizzano uno 0,8 sulla scala del rischio. Parigi sarebbe più vulnerabile sul fronte degli investimenti diretti, mentre Berlino sconta interessi finanziari e un export più consistenti. Entrambi i Paesi sono comunque, secondo S&P, sotto il livello d’allarme.
IL CASO SPAGNA
Più complessa la situazione della Spagna. Madrid raggiunge infatti 1,5 punti sulla scala Bsi, soprattutto per l’esposizione finanziaria e per i consistenti investimenti diretti. Circa sullo stesso livello si piazzano Belgio e Olanda, entrambi esposti sui fronti dell’export e degli investimenti diretti.
DOSSIER IRLANDA
A doversi davvero preoccupare in vista del voto del 23 giugno è però, neanche a dirlo, la vicina di casa del Regno Unito, ossia l’Irlanda. Dublino ricava oltre il 10 per cento del suo prodotto interno lordo dall’export verso i vicini inglesi e, come è facile immaginare, vede grandi interessi finanziari e investimenti. L’immigrazione in entrata e uscita poi riguarda l’equivalente del 17,2 per cento della popolazione irlandese. Anche altri partner storici (ed ex possedimenti) di Londra, come Malta e Cipro, sono visti da S&P come fortemente minacciati dalla Brexit, ma le piccole dimensioni delle loro economie scongiurano possibili contagi sistemici.
LUSSEMBURGO E SVIZZERA
Complessa anche la situazione di Lussemburgo e Svizzera, rispettivamente terzo e quinto Paese nella classifica del rischio, a causa della loro natura di centri finanziari che li espone enormemente. Gli asset svizzeri minacciati arrivano al 65,1 per cento del pil, quelli lussemburghesi addirittura al 73,3 per cento. Entrambi poi hanno investimenti diretti Oltremanica per il 6 per cento dei rispettivi pil. Ultima nota: la classifica a sorpresa comprende due Paesi non Ue: il Canada (poco esposto, al livello italiano) e la Norvegia, le cui esportazioni di petrolio e gas nel Regno Unito valgono il 7,4 per cento del pil.
(Pubblicato su Mf, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)