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Ecco come la Germania ha scrutato la missione di Angela Merkel in Cina

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In che modo la Germania intende tutelare i propri interessi alla luce di una Cina sempre più ansiosa di giocare un ruolo di primo piano nell’economia globale? La Germania rischia di diventare in futuro il fornitore per eccellenza di componentistica d’altissimo livello aggiunto del Dragone? Sono queste le domande che il quotidiano Frankfurter Allgemeine metteva nel bagaglio di Angela Merkel prima che la stessa prendesse il volo alla volta della visita di tre giorni in Cina appena conclusasi. Domande che mettono in luce una inquietudine crescente nei confronti del Dragone anche in Germania.

Fino a poco tempo fa il regno di mezzo aveva garantito buoni affari e ottimi margini di guadagno grazie a una manodopera poco costosa. Ora però la Cina è in fase di trasformazione, ambisce a una produzione a più alto contenuto tecnologico e a maggior valore aggiunto, la crescita è rallentata significativamente e gli effetti li hanno sentiti anche le oltre 5000 imprese tedesche che fino a oggi hanno investito lì 50 miliardi di euro. Ma nonostante la crescita economica sia rallentata, i cinesi vanno in giro per il mondo a fare shopping di imprese. E in particolare di quelle tedesche. Per questo il programma di sviluppo annunciato da Pechino “Made in China 2025” suona alle orecchie degli imprenditori tedeschi come una “sfida”, anzi, come una sorta di “assalto” alla diligenza tecnologica tedesca, prosegue il FAZ. Un assalto ancora più temibile alla luce delle aspettative dei cinesi. Quando nel 2001 la Cina è entrata nel WTO, l’Unione Europea aveva parlato di un periodo di transizione di 15 anni, al quale sarebbe seguito poi il riconoscimento da parte di Bruxelles dello status di economia di mercato. Un upgrading che gli imprenditori tedeschi guardano però con sospetto. Una volta ottenuto questo riconoscimento, sarebbe più difficile procedere contro i cinesi per dumping. Da qui la raccomandazione del settimanale die Zeit: “Merkel non deve farsi mettere sotto pressione”.

Missione compiuta si potrebbe dire ora, o così almeno ha voluto leggere il settimanale Focus le parole e le dichiarazioni della Kanzlerin fatte nel corso della visita. Pechino l’ha accolta in pompa magna per il quarto incontro intergovernativo tra i due Paesi. Le ha conferito anche una laurea ad honorem. Merkel si è mostrata molto grata per questo riconoscimento. Ma non per questo ha evitato i discorsi spinosi. Così davanti a una platea gremita nell’aula magna della Nanjing University di Pechino ha prima ringraziato per l’onore riservatole e poi è passata ad affrontare i veri motivi del suo viaggio. “Nessuno vuole una guerra commerciale”, ha detto la Kanzlerin, ma se la Cina vuole essere una economia di mercato a tutti gli effetti allora deve esserci la garanzia del diritto. Gli imprenditori tedeschi devono godere degli stessi diritti di quelli cinesi.

Come ricorda la Zeit, da quando l’economia cinese ha cominciato a rallentare il passo il Paese ha iniziato a chiudersi progressivamente, a erigere barriere nei confronti degli investitori stranieri e nonostante i propositi un tempo annunciati continua a sovvenzionare pesantemente la propria industria. Soprattutto quella pesante dell’acciaio, dell’alluminio e dei pannelli solari, con il quale stanno sommergendo con prezzi di dumping il mercato globale. Motivo per cui il Giappone e gli Usa hanno già annunciato che non riconosceranno la Cina come economia di mercato. E anche il Parlamento europeo si è dichiarato contrario. Sul piano europeo è la Commissione ad avere l’ultima parola e si è lasciata tempo fino a fine di quest’anno per prendere una decisione. “L’Industria 4.0 come chiamiamo noi il salto tecnologico, o China 2025 come viene chiamata qui, richiede una collaborazione basata sulla fiducia”, ha detto Merkel. “La sicurezza in rete gioca qui un grande ruolo”. Sicurezza e collaborazione. “Se noi uniamo le nostre forze”, ha proseguito la Kanzlerin, “allora possiamo operare insieme sui mercati terzi, quello africano o quelli asiatici. Possiamo insieme sviluppare sistemi di prevenzione per il lavoro nelle miniere o lo sviluppo del Mali”. Ma la Cina deve giocare ad armi pari.

Merkel si è dichiarata disponibile ad assumere un ruolo di mediazione tra Pechino e Bruxelles. Una più stretta unione commerciale sarebbe senza dubbio nell’interesse anche dell’Ue: il volume di scambi commerciali ammonta oggi a 520 miliardi di euro. Ma a precise condizioni, ovviamente trattabili.

Scrive la Süddeutsche Zeitung: “Se si volesse valutare lo status della Cina esclusivamente sui fatti, allora risulta chiaro che il paese non è una economia di mercato. Le borse vengono guidate dall’apparato di partito, le banche sono di proprietà statale e chi vuole portare fuori dal paese più di 50 mila dollari deve richiedere una autorizzazione. E se ne troverebbero tanti altri di motivi per non riconoscere al paese questo status. Il fatto è che non si tratta di un dibattito accademico. Ciò a cui stiamo assistendo è realpolitik allo stato puro. Dove si tratta, si media, si forgiano compromessi. Per la Cina il riconoscimento è importante per la trasformazione del sistema produttivo in corso nel paese”. Da qui il pressing costante che Pechino sta facendo soprattutto sull’Ue. Una strategia già perseguita con i britannici, i quali l’anno scorso avevano assicurato per iscritto il loro appoggio, salvo defilarsi per via delle pressioni della siderurgica britannica. Ora la carta è in mano a Berlino. Che però deve a sua volta rispondere ai propri capitani d’industria. In particolare del settore automobilistico, sul quale i cinesi hanno puntato gli occhi.

Come detto, Merkel ha promesso di svolgere opera di mediazione. Cosa realmente ciò vorrà dire è da vedere. Quello che invece si sa è che durante la sua visita, nella quale la accompagnavano sei ministri e alcuni dei big player dell’economia tedesca, tra cui i presidenti di Siemens, Joe Kaeser, di Thyssen Heinrich Hiesinger e di Basf, Kurt Bock, sono stati sottoscritti, come annunciava il tg nazionale Tagesschau, accordi complessivi per 3 miliardi di euro. Anche questo fa parte della realpolitik.


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