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Petrolio, cosa succederà alla riunione Opec a Vienna

Gli occhi del mondo sono puntati su Vienna: il 2 giugno si riunirà l’Opec nel tradizionale meeting biennale. Il tema è sempre quello: come riuscirà il settore a ritrovare i perduti profitti? E mentre il prezzo del greggio si mantiene sotto la soglia di 50 dollari, (49,60 alle ore 20 italiane) molto apprezzata dai produttori, il tema più scottante alla vigilia del meeting di Vienna è: chi sostituirà Abdalla El-Badri come il prossimo segretario generale?

Un problema, quello del portavoce del cartello, di non secondaria importanza, come ricorda Bloomberg. Perché riflette la litigiosità all’interno del gruppo di estrattori di petrolio. El-Badri, libico, 76 anni, doveva dimettersi già nel 2012 dopo aver occupato la posizione per sei anni. A dicembre si è tentato di sostituirlo, ma senza riuscirci. Venezuela, Ecuador, Iran e Algeria premevano per la sua partenza. Sono solo riusciti a porre come termine ultimo del mandato di El-Badri il prossimo mese di luglio. Queste divisioni sono un chiaro sintomo della frattura interna all’Opec.

Iran e Arabia Saudita, esponenti di spicco, non intendono porre tetti alla produzione, che spingerebbero i prezzi verso quel range tra 50 e 60 dollari che gli analisti ritengono fondamentale per preservare investimenti e margini di profitto. Nel frattempo, la politica di estrazione senza sosta dell’Arabia Saudita ha comunque avuto effetti dirompenti sullo shale gas Usa: se infatti il prezzo del greggio è passato dai 25 dollari di inizio anno agli attuali 49 è perché i pozzi attivi negli Usa sono calati una settimana dopo l’altra. A influire sul recente rialzo delle quotazioni è stato anche il devastante incendio in Alberta. Ieri il gruppo Suncor Energy ha reso noto di aver riavviato la produzione nei giacimenti di Fort McMurray.

Agli incendi che hanno l’area sono seguiti gli scioperi nelle raffinerie francesi. Due fattori temporanei. Per Julian Jessop, capo-economista di Capital Economics, ripreso dal Wall Street Journal, «il petrolio tra 50 a 60 dollari allenterebbe la pressione sui produttori, al tempo stesso promuovendo la spesa per altri beni e servizi». Una simile ripresa potrebbe anche essere bastare ad alleviare la pressione sui banchieri centrali, alle prese con un’inflazione che non vuol saperne di ripartire. Quindi la Fed potrebbe lentamente normalizzare i tassi di interesse, tenendoli tuttavia abbastanza bassi da favorire la crescita.

«Se petrolio e dollaro resteranno stabili, l’inflazione dovrebbe salire fino all’obiettivo del 2%», ha detto Jerome Powell, membro della Fed. I colossi del petrolio non hanno alcuna fretta di riprendere i costosi progetti a lungo termine, che richiedono sensibili aumenti di prezzo per essere redditizi. «Dobbiamo stare attenti che il petrolio a 50 dollari non sia una falsa pista», commenta Nicholas Green di Bernstein. «Le maggiori compagnie saranno molto prudenti. Non riusciranno a trovare molti progetti convenienti a 50 dollari al barile e forse neanche a 60 dollari».

Intanto il Financial Times ha rivelato, nei giorni scorsi, che le banche d’affari americane sono tornate alla pratica del commodity trading. Fanno stoccaggio di petrolio e gas naturale (in forma fisica) facendo in concorrenza al big oil. Goldman Sachs ha in stock, più idrocarburi di Chevron ed Exxon. Lo scorso anno la banca ha acquistato e venduto 1.200 miliardi di piedi cubi di gas negli Usa, un quarto dei consumi residenziali del Paese.

(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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