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Perché la strage di Orlando è un fertilizzante per i voti di Donald Trump

È una tragedia in sé, senza neppure il bisogno di fare la conta degli americani assassinati, comunque da cinquanta all’insù. Lo è anche, starei per dire soprattutto, perché ha colpito, colpisce, a tanti livelli: da quello semplicemente umano, a quello comprensibilmente, anche se tristemente, di opportunità politica.

Passando per gli strati di una coscienza che sfiora quella razziale e per i massimi livelli di una strategia planetaria con tanti risvolti in angoli diversi del mondo.

È egualmente lecito, dunque, che le centrali della riflessione e del calcolo a Washington si siano attivate quasi istantaneamente su domande che vanno da una riacutizzazione di una “guerra” radicata nei comportamenti e nelle sette sessuali alle sue conseguenze razziali, magari improprie ma inevitabili in questo stadio, a scelte propriamente, perfino nobilmente, strategiche.

La strage di Orlando mobilita insomma con pari urgenza, anche se non livello, i predicatori e i generali, il Pentagono e le centrali dei partiti, i candidati alla Casa Bianca e chi alla Casa Bianca ancora ci abita con tutto il carico di responsabilità che ne deriva.

È dunque paradossale, naturalmente anche triste, che entro poche ore da una mattanza in un locale notturno frequentato da gay, si sia arrivati non solo alle nobili e ferme parole dell’appello di Barack Obama a tutti gli americani a una rissa fra esperti di sondaggi preelettorali che ne lascia intravvedere una fra strateghi di persone e di partiti.

La sua formulazione più esplicita, diciamo pure più sfacciata, è la domanda dalle tante risposte ma in ogni caso “brutale”: Donald Trump guadagnerà davvero due milioni di voti? Gli basteranno per sovvertire gli ultimi pronostici favorevoli a Hillary Clinton in misura varia ma in complesso confortevole?

Più concretamente salteranno agli occhi degli elettori le gaffe presenti e passate del candidato repubblicano, Trump, appunto, in materia di ordine pubblico, strategie belliche, scontri di religione, limiti alle pratiche introdotte in America da un’altra strage numericamente senza paragoni che l’11 settembre dettò scelte e reazioni del presidente George W. Bush, ne spinse in alto ira, senso del dovere e popolarità per poi ricadergli addosso al mutare dei venti? In quell’occasione l’attacco dei terroristi aveva connotati assolutamente chiari, oggi c’è uno spazio per le ambiguità. Ma non abbastanza per giustificare uno sconto all’allarme.

Anche se Orlando resterà nella cronaca nera e non nella storia del mondo, resta innegabile che tra i suoi moventi c’è, probabilmente dominante, quello di un “attacco all’America” anche se da parte non più stavolta di un guerriero dell’élite islamica come Bin Laden, ma di un americano di fede islamica, dagli odii più bassi, di una posizione nella vita umile e anzi paradossale: un guardiano delle carceri.

Un aggancio personale egualmente c’è: le origini di Omar Mateen sono afghane, la sua età è direttamente riconducibile alla guerra succeduta all’eccidio delle due torri di quindici anni fa.

E siamo, lo si può deprecare ma non sforzarsi di nasconderlo, nel pieno di una campagna elettorale contrassegnata da una radicalizzazione dell’elettorato in entrambe le direzioni.

Donald Trump ne è stato protagonista da quando ha aperto la bocca per annunciarsi, fra lo stupore generale, come candidato. E ha subito preso il toro per le corna, colpendo dove sapeva che avrebbe suscitato le più chiassose reazioni, non importa se ostili.

La grande sorpresa è che quest’uomo solo ha fatto saltare l’intera struttura ideologica del Partito repubblicano, messi ko l’uno dopo l’altro i suoi esponenti legittimi, costretto gli altri o a mettere ai suoi piedi un consenso in extremis che assomiglia tanto a una capitolazione oppure a combatterlo a viso aperto rischiando così di regalare non soltanto la Casa Bianca a Hillary ma anche il Congresso a un partito democratico fino a ieri rassegnato e depresso, scosso a volta dalla “rivoluzione” socialista di Bernie Sanders e rilanciato solo da un caos in campo avverso. Così si disegnava una campagna elettorale così lontana e così abbassata dai dibattiti degli ultimi anni su idee e illusioni di un personaggio come Obama.

Adesso, e mi sia perdonato di citare il Petrarca (che obiettivamente non c’entra), si va al “combatter corto”. Nel senso che ogni colpo è lecito perché quasi tutti colpiscono al di sotto della cintola.

È vero che Donald Trump ha tenuto discorsi e fatto proposte apertamente razziste. È vero che le reazioni delle amministrazioni democratiche, anche prima di Obama sono state incerte o ingenue di fronte al terrorismo, soprattutto nel Medio Oriente. Che i candidati se li rinfaccino non è nobile. Ma forse è inevitabile.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)



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