Forte capacità decisionale del sistema istituzionale ed ampia liberalizzazione del mercato, considerando il lavoro alla stessa stregua delle merci, dei servizi e dei capitali, sono considerati fondamentali nel dibattito sulle riforme strutturali. In Francia, la “loi Travail”, la riforma del lavoro proposta dal governo guidato dal giovanissimo Manuel Valls, sta suscitando un visibile, quanto inatteso, malcontento.
Ci sono automobilisti a secco di carburante, già da una settimana, per il blocco delle raffinerie e dei rifornimenti alle pompe: il tutto provocato all’inizio da parte di pochi scioperanti e di sparuti manipoli di rivoltosi. La spontaneità delle proteste, il fatto che siano ben diverse dalle tradizionali e ben organizzate marce sindacali di protesta e forme di sciopero, ha sorpreso un po’ tutti, rievocando il fantasma del ’68: anche allora si trattava di un movimento che nessuno sembrava in grado di controllare, in quanto non si capiva chi e che cosa lo guidasse.
In Francia, si discute e ci si scontra, talora violentemente, su una riforma strutturale del mercato del lavoro: per migliorare la competitività economica, la contrattazione aziendale prevarrà su quella nazionale di settore. Nel Piano nazionale delle riforme per i 2016, il governo ha inserito questo provvedimento, chiarendone così l’obiettivo: “I partner sociali avranno più responsabilità nella definizione delle regole relative all’organizzazione ed ai tempi di lavoro nell’ambito dei limiti previsti dalla legge. Allo stesso modo, il progetto di legge dà più visibilità alle imprese sulle assunzioni a tempo indeterminato in quanto chiarisce le condizioni che permettono di ricorrere al licenziamento per ragioni economiche”. Per quest’ultimo motivo, la proposta francese è stata assimilata al Jobs Act italiano.
Il punto cruciale dello scontro sulla loi travail è rappresentato dall’articolo 2, che ribalta la gerarchia delle fonti contrattuali. E’ una prospettiva radicale, assai più incisiva delle deroghe introdotte in Italia, sin dal 2011: da noi sono previsti accordi di prossimità che possono derogare alle disposizioni di legge ed agli accordi nazionali in quanto finalizzati alla soluzione di problematiche specifiche, aziendali o locali. La loi Travail prevede invece che l’accordo aziendale prevalga comunque su quello di settore quando sia approvato da sindacali che rappresentino almeno il 50% dei lavoratori. Qualora rappresentino almeno il 30%, l’accordo è soggetto a referendum da parte dei lavoratori.
Vista la scarsa adesione alle manifestazioni sindacali ed agli scioperi contro il progetto di riforma, e contando sulla spaccatura del fronte sindacale in cui solo la sinistra rappresentata da CGT e da FO si era rifiutata di sottoscrivere l’”Accordo della vergogna”, il governo Valls aveva deciso di accelerare i tempi, evitando il dibattito parlamentare ed il confronto con gli esponenti del suo stesso partito sui singoli punti della riforma. Ha deciso di porre la questione di fiducia, disciplinata dalla Costituzione della V Repubblica sin del 1958: l’articolo 49, comma 3, dispone che in questo caso la legge si intende approvata a meno che la Assemblea nazionale non voti tempestivamente una mozione di censura nei confronti del governo, a maggioranza assoluta dei suoi componenti.
E’ una manovra decisionista, tipica della democrazia governante, contrapposta ai riti ed alle lungaggini parlamentari di quella rappresentativa. Ma è stato proprio l’azzardo del governo Valls ad aver rinfocolato il conflitto sociale. Questa scorciatoia non mette in difficoltà solo il governo, ma delegittima le istituzioni elettive: se il primo non osa prendere provvedimenti drastici sul piano dell’ordine pubblico per evitare di radicalizzare il conflitto, così facendo incoraggia indirettamente l’adesione di altri alla rivolta; d’altra parte, il Parlamento è ormai esautorato: si può discutere dappertutto, ma non ufficialmente nell’unico luogo deputato per farlo. Al governo non resta che valutare una marcia indietro, politicamente ancor più rovinosa.
Il Presidente Hollande è scomparso dalla scena, anche perché la riforma mette in discussione un altro dei suoi punti programmatici: al n. 55 degli impegni elettorali del 2012 aveva promesso la costituzionalizzazione del principio legislativo, già oggi vigente, che garantisce alle parti sociali una fase di concertazione nella procedura di formazione delle leggi di loro interesse. Il testo della riforma costituzionale, predisposto dal Governo presieduto da Jean-Marc Ayrault il 13 marzo 2013, si è arenato in Parlamento.
Ora, il governo presieduto da Manuel Valls propone una riforma che mette in discussione l’istituzione sindacale: non è la concertazione a saltare, ma il ruolo politico. Viene meno il potere di organizzare il lavoro in forma generale, tipico delle funzioni pubbliche. Lo sbriciolamento della contrattazione fa venir meno la funzione normativa degli accordi di settore, rendendoli inutili.
Il malessere dell’economia francese, al di là della contabilità dei manifestanti e degli scontri sulla loi Travail, è profondo: anche in Francia, il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro, che lo stesso Governatore della Bce Mario Draghi ha sollecitato nell’ambito della Relazione annuale sul 2015, trascura i problemi derivanti dalla struttura economica. Diversamente dall’Italia, in cui prevalgono le piccole e medie aziende a conduzione spesso familiare, in Francia le grandi aziende rappresentano la struttura produttiva. Un ruolo determinante è giocato dalle imprese multinazionali: quelle sotto controllo straniero rappresentano uno snodo delicato. Nel 2013, infatti, il 46% del complesso delle transazioni della Francia con l’estero ha fatto capo a multinazionali non soggette al controllo francese. Le filiali di multinazionali americane rappresentano un terzo del totale, mentre quelle tedesche arrivano al 17%. Seguono quelle britanniche, svizzere e giapponesi, con un peso ciascuna inferiore al 10%. Il complesso di queste multinazionali ha determinato uno squilibrio tra import ed export pari all’intero deficit commerciale della Francia, pari nel 2013 ad 82 miliardi di euro. Al contrario, le multinazionali sotto controllo francese hanno prodotto un avanzo commerciale con l’estero, pari a 26 miliardi di euro.
Se da una parte la Francia si colloca al quinto posto al mondo nella graduatoria dei Paesi capaci di attrarre investimenti esteri, per un ammontare pari al 38,4% del pil nel 2012 (rispetto al 23,8% nel 2002), questo indubitabile successo non sembra essere stato vantaggioso. L’analisi dei dati porta a concludere che la gran parte delle importazioni delle multinazionali straniere, e del deficit commerciale che ne deriva per la Francia, è destinata ai consumi interni della Francia stessa. Molte filiali di multinazionali straniere che intervengono negli scambi con l’estero sono operatori che agiscono nel commercio all’ingrosso, che importano per rivendere nel mercato francese. Più della metà delle importazioni delle multinazionali straniere è dovuta a questo comparto: la Francia è un grande mercato di consumo in cui le filiali di multinazionali straniere si insediano soprattutto per vendere ciò che magari producono all’estero: nel settore automobilistico, ad esempio, sono responsabili del 60% delle importazioni ma solo del 30% delle esportazioni.
Sta qui il nesso con la loi Travail: secondo i teorici delle riforme strutturali, la Francia deve essere più competitiva, deve importare di meno ed esportare di più, e per ottenere questo risultato il costo del lavoro francese si deve abbassare. I francesi stanno per scoprire gli effetti negativi della apertura ai capitali stranieri: dopo essere stati colonizzati, ora viene chiesto loro di cinesizzarsi.
Non ci si domanda invece perché, in tutti i settori in cui operano imprese francesi indipendenti, o filiali di multinazionali sotto controllo francese, le esportazioni superano le importazioni: evidentemente il costo del lavoro non è determinante: dall’aeronautica alle bevande, dai prodotti farmaceutici ai profumi, fino ai prodotti caseari, sono tutte in attivo.
Il Presidente François Hollande comincia a diffidare della globalizzazione, afferma che la Francia non può accettare il TTIP a questo stadio delle trattative, perché è un accordo senza regole: l’economia francese, e non solo quella, sarebbe travolta. La loi Travail intanto serve alle imprese per aumentare i profitti. I francesi pagano le tasse, anche parecchio alte, perché ne sono beneficiari. Ma non tollerano imposizioni ingiuste: quando ci si è provato, sono rotolate teste.