La sua epoca d’oro è stata il pontificato di Benedetto XVI, nel corso del quale si è messo in luce come uno dei falchi vaticani convinti del fatto che col governo di Pechino si dovesse giocare in modo duro e pesante. Poi, salito al Soglio Francesco – e soprattutto uno che non sembra averlo nelle sue grazie, ossia il Segretario di Stato Pietro Parolin, fautore di una realpolitik verso la Cina – è finito in un angolo. Dal quale, però, continua ogni tanto a sortire essendo anche gradito ad un certo mondo conservatore. Parliamo del cardinale Joseph Zen Ze-kiun, salesiano di ferro classe 1932 ed intimo amico di Joseph Ratzinger nonché vescovo emerito di Hong Kong. Che ultimamente ha preso carta e penna e, sul suo blog, è intervenuto attaccando duramente l’eventuale accordo che permettere di ristabilire i rapporti diplomatici tra Santa Sede e Cina. Bisogna sapere, infatti, che dal 1951 Roma e Pechino si guardano in cagnesco e non si risparmiano le ditate negli occhi: in quell’anno, infatti, Mao Tze Tung espulse gli ultimi missionari cattolici dall’ex Celeste Impero accusandoli di essere in fondo esponenti malsani di un potere politico nemico della Cina, e cioè del Papa. In realtà il discorso era molto più profondo, essendo il Cristianesimo – e malgrado l’impegno del gesuita Matteo Ricci nel ‘500 per evangelizzare la Cina – visto come un retaggio dell’oppressione colonizzatrice occidentale. Un simbolo di conquista, insomma: che agli occhi di Mao doveva saltare.
DA DOVE NASCONO LE TENSIONI TRA ROMA E PECHINO
E infatti, espulsi i missionari, nel 1957 i cattolici cinesi dovettero scegliere: Pechino creò una “chiesa” acefala, cioè senza un capo e men che meno fedele al Papa, ossia l’Associazione Cattolica Patriottica. Che si occupa di “lavorare” alle dipendenze dell’Amministrazione Statale degli Affari Religiosi, il “ministero” del governo di Pechino che gestisce i culti nel Paese. Inutile dire che il “cattolicesimo patriottico” declina la fede in modo diverso rispetto a quella di Roma; e da allora una parte dei cattolici è “patriottica”, quindi fedele alla “chiesa” ufficiale: mentre oltre otto milioni di cinesi sono cattolici clandestini, sottoposti ad un rigido controllo dello Stato e spesso perseguitati. Essere cattolici clandestini significa pregare in mezzo ai campi, nei garage e di nascosto. Significa essere ordinati sacerdoti in modo clandestino ed essere arrestati e sparire per anni dopo un blitz di polizia. Significa cioè essere considerati cittadini parzialmente infedeli, dal momento che – ripetiamo – per Pechino la fedeltà al Papa equivale alla fedeltà ad un Capo di una nazione straniera.
COME PROCEDE IL DIALOGO
Questo è lo stato dei fatti: negli ultimi 40 anni, però, la Santa Sede ha avviato un duro percorso di dialogo e incontro, a volte rocambolesco e – fino all’arrivo di Parolin al timone della Segreteria di Stato – coadiuvato dalla Comunità di Sant’Egidio di Andrea Riccardi che, grazie alle sue attinenze col mondo politico e culturale cinese, ha funzionato – notano i diplomatici USA – da ballon d’essai delle scelte vaticane. Un ruolo meritorio e coraggioso, che però con la gestione di Tarcisio Bertone (negli anni d’oro di Zen, appunto) è cessato. Per ripartire con Parolin.
I NODI DA SCIOGLIERE
Ora il nodo essenziale del rapporto Cina-Vaticano, dopo che nell’agosto 2005 si era quasi clamorosamente arrivati al ristabilimento delle relazioni diplomatiche internazionali, riguarda la nomina dei vescovi. Roma sta proponendo un modus vivendi che proprio nel 1996 Parolin è riuscito a implementare in Vietnam: il Vaticano propone una terna di vescovi, all’interno della quale Pechino fa la sua scelta. Solo che il metodo implementato ad Hanoi ha qualche difetto: in Vietnam il governo sceglie di fare le nomine quando vuole (spesso con ritardo) e prende candidati filogovernativi.
IL CONTRASTATO RAPPORTO TRA ZEN E PAROLIN
Questa premessa serve per chiarire chi siano gli uomini in campo e da dove scaturiscono le uscite polemiche di Zen. Uno del quale Parolin pensa questo, come riportano i cablo di Wikileaks: nel 2006 Benedetto XVI lo ha creato cardinale semplicemente perché non c’era un altro da creare cardinale al posto suo. Non lo hanno scelto per le sue qualità personali, fece capire ai diplomatici dell’ambasciata Usa in Vaticano, ma solo perché il Papa avrebbe voluto nominare un cardinale cinese come gesto d’amicizia verso Pechino e, naturalmente, non avrebbe potuto nominare nessun altro perché non c’erano altri candidati. Men che meno di Taiwan, isola considerata da Pechino provincia ribelle (cablo 06VATICAN52_a del 28 marzo 2006).
E comunque nemmeno Zen sembrerebbe avere grossa stima di Parolin, già che ci siamo, visto che sempre ai diplomatici yankee aveva detto (cablo 08VATICAN18_a del 31 gennaio 2008) che da quando il dossier Cina era stato tolto all’arcivescovo Claudio Maria Celli, dal 1990 al 2007 sottosegretario ai Rapporti con gli Stati (il viceministro degli Esteri del Vaticano, per capirci), la Santa Sede aveva mostrato una mancanza di “competenza” sulla questione cinese.
ZEN PURE CONTRO IL PAPA?
Zen non sembra aver mai condiviso la linea e l’operatività di Parolin sulla Cina. Ecco perché ancora una volta ha rotto il suo silenzio tornando a esprimere sulla sua pagina web delle considerazioni pesanti. Sostanzialmente, il cardinale si dice contrario – e lo dice ai fedeli di tutta la Cina – ad un eventuale appeasement tra Roma e Pechino, dal momento che questo contrasterebbe con la libertà della Chiesa da ingerenze di tipo politico esterno come richiesto da Benedetto XVI nella famosa Lettera ai cattolici cinesi del 2007. Per Zen, insomma, la centralità della figura papale è indiscussa, e che un accordo con la Cina dovrebbe avere l’approvazione di Francesco. Ma in questo caso, scrive: “Non dovremmo criticare alcunché di quello che il Papa approverà”. E’ però certo che: “Alla fine della fiera, la coscienza di ognuno è il criterio ultimo per giudicare il nostro comportamento. Quindi, se la vostra coscienza vi dice che il contenuto di qualsiasi accordo va contro i principi della nostra fede, non dovreste accettarlo”. Insomma, una ribellione contro il Papa e contro la Santa Sede che per il Papa lavora, con un chiarimento: “Il timore è che in futuro non possiate più avere un luogo pubblico di culto, ma sarete liberi di pregare a casa; e se doveste essere impediti nella ricezione dei Sacramenti, il Signore entrerà ancora nei vostri cuori; e nel caso in cui non poteste praticare il servizio sacerdotale, potrete ancora andare a casa a zappare la terra. Un sacerdote resta tale per sempre”. Uno scenario rassicurante, non c’è che dire.
IL SIGNIFICATO DELL’ULTIMA SORTITA
Zen, come abbiamo detto, è uomo spiccio ed esponente dei “falchi”. È ritirato ed anziano, vede la gestione del dossier Cina in mano a Parolin con cui non sembra essere mai corso buon sangue. Ma sa, come molti sanno in Vaticano, che questo Papato si gioca una pesante eredità sui rapporti con l’ex Celeste Impero e sa anche che Francesco vuole chiudere un accordo con Pechino e ha dato mandato al Segretario di Stato di trattare e portare a casa un risultato. Valuta tutto questo come estrema remissione nei confronti di un potere politico che certo non stima né approva. E a questo si aggiunge anche quello che per lui è un silenzio colpevole. Quello del Vaticano sul clamoroso voltafaccia di monsignor Taddeo Ma Daqin: che il 12 giugno scorso sul suo blog si è pentito di aver lasciato l’Associazione Patriottica nel 2012, tornando ad esaltare quest’istituzione. Apriti cielo: Zen è sbottato sul suo blog scrivendo che: “Sì, il Vaticano dovrebbe chiarire e dare delle linee guide, in nome della verità, la giustizia e la buona morale dell’amore. Roma dovrebbe proteggere la reputazione della Chiesa, di monsignor Ma, sradicare il caos e la sporcizia nella chiesa cinese. Non dire nulla è da irresponsabili”. A proposito: il Papa ha fatto sapere che sta pregando per monsignor Ma e che sta seguendo la sua vicenda personale ed ecclesiale “con particolare premura e sollecitudine”. Chissà se al cardinal Zen questo basterà.