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Napolitano, il Consiglio supremo di Difesa e gli F-35

La politica di sicurezza e l’accresciuto ruolo del Consiglio supremo di difesa: le missioni militari all’estero e la vicenda degli aerei F35.

Con la presidenza Napolitano il Consiglio supremo di difesa ha assunto maggiore rilievo ed è divenuto una sede attraverso la quale il capo dello Stato può concretizzare la sua influenza sulla politica estera. Sotto il profilo organizzativo, all’inizio del suo primo mandato, il presidente dispose l’unificazione della carica di segretario del Consiglio supremo di difesa con quella di consigliere per gli Affari militari della presidenza della Repubblica. Un’innovazione che ha sottratto il consiglio all’influenza dell’esecutivo e ha realizzato una sua più stretta dipendenza organizzativa e funzionale dalla presidenza della Repubblica.

Fin dalla prima riunione presieduta da Napolitano (il 18 dicembre 2006, con il II governo Prodi) fu evidenziata “la necessità di una sistematica e piena valorizzazione” dell’organo e nella riunione del 2 ottobre 2008, la prima con il IV governo Berlusconi, il capo dello Stato sottolineò la rilevanza del consiglio “quale sede istituzionale per la condivisione e l’approfondimento della conoscenza multidisciplinare delle problematiche interessanti la sicurezza e la difesa”.

In consonanza con questi intendimenti l’attività del consiglio da occasionale e irregolare, quale era stata nel passato, è divenuta sistematica e continua [Bellandi 2011, 221], sia pur limitata a due o tre riunioni all’anno, e ha avuto una trasparenza e una risonanza nella comunicazione politica molto maggiore che in passato. Ma quel che più conta è l’ampiezza delle tematiche affrontate, l’organicità della loro trattazione (ovviamente in relazione alla ridotta continuità dei lavori), la capacità, in specifiche, rilevanti vicende, di costituire la sede di definizione di orientamenti poi attuati dal governo e recepiti dalle camere. Il Consiglio ha tenuto sotto osservazione le aree maggiormente sensibili sotto il profilo della sicurezza, ha affrontato il tema di una difesa integrata europea e le problematiche riguardanti la Nato, ha discusso dell’organizzazione e dell’ammodernamento delle forze armate e dell’ottimizzazione delle risorse per esse disponibili, ha esaminato le questioni attinenti all’utilizzazione delle forze armate per finalità di ordine pubblico.

Un particolare rilievo ha assunto l’esame della partecipazione a missioni militari all’estero quali l’Unifil in Libano (si veda cap. VI, par. 2) e l’Isaf in Afghanistan. Riguardo a quest’ultima, il consiglio, nella seduta del 2 aprile 2007, esaminò “le modalità di attuazione dell’impegno assunto in parlamento per il rafforzamento delle misure di protezione del contingente italiano” che aveva subito attacchi da parte dei talebani. A un tale passo si opponevano i partiti dell’estrema sinistra (Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani) che temevano uno snaturamento della missione nata come missione di pace per riportare l’Afghanistan a un’ordinata convivenza civile e un coinvolgimento dei militari italiani in vere e proprie azioni di guerra. Quei partiti erano nel governo Prodi, ma non erano rappresentati in consiglio, ove, secondo notizie giornalistiche, si giunsero a concordare nei dettagli i sistemi d’arma da inviare e il numero dei soldati che si dovevano aggiungere a quelli già presenti in Afghanistan. Il consiglio, avendo cura di confermare nel comunicato “il carattere della missione”, ebbe un ruolo decisivo di impulso nello spingere il governo ad adottare quelle misure, superando ogni resistenza di alcune sue componenti.

Per quanto attiene alla riorganizzazione delle nostre forze armate, un intervento particolarmente significativo del Consiglio supremo di difesa si è avuto riguardo all’annosa e complessa vicenda della partecipazione dell’Italia al programma per il cacciabombardiere Joint Strike Fighter – F35. Il programma, per esigenze di bilancio, aveva subito un consistente ridimensionamento nel 2012, ma a maggio 2013 Sel e M5s ne chiedevano l’annullamento e trovavano sponda in esponenti del Pd. Era messa così a rischio la coesione della maggioranza che sosteneva il governo Letta. Il 16 giugno la Camera votava una mozione di compromesso presentata dalla maggioranza. Essa conteneva il preannuncio dell’avvio da parte delle commissioni competenti di un’ampia indagine conoscitiva sui sistemi d’arma destinati alla difesa e impegnava il governo a non procedere ad alcuna fase di ulteriore acquisizione senza che il parlamento si fosse espresso nel merito, ai sensi dell’art. 4 l. n. 244/2012. Questa complicata e non del tutto chiara disposizione sostituisce l’art. 536 del codice dell’ordinamento militare. Essa prevede, tra l’altro, la trasmissione al parlamento del Piano di impiego pluriennale, contenente l’elenco dei programmi di armamento in corso che, se finanziati con ordinari stanziamenti di bilancio, devono essere attuati mediante decreti ministeriali. L’adozione dei decreti è condizionata all’espressione del parere delle competenti commissioni delle camere che possono anche, a maggioranza assoluta, impedire l’adozione del programma.

Il giorno dopo l’approvazione della mozione il presidente convocava il Consiglio supremo di difesa per il 3 luglio. Il comunicato della riunione non citava esplicitamente la vicenda degli F35, ma conteneva una precisazione che non poteva non essere a essa riferita: anche per quanto attiene alle necessità conoscitive e di eventuale sindacato delle commissioni Difesa sui programmi di ammodernamento delle forze armate, fermo restando che, nel quadro di un rapporto fiduciario che non può che essere fondato sul riconoscimento dei rispettivi distinti ruoli, tale facoltà del parlamento non può tradursi in un diritto di veto su decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo.

Era una netta presa di posizione che aveva il fine di non far bloccare integralmente e all’istante il programma relativo agli F35. Immediate le critiche di M5s e Sel, mentre il Pdl sembrava concorde e il Pd era spaccato, essendo consistente al suo interno una componente contraria all’acquisto degli F35. Organi di stampa, anche di diverso orientamento (“il Fatto Quotidiano” e “il Giornale”) indicavano in Napolitano l’artefice di quella decisione, in quanto preoccupato di non compromettere i rapporti con gli Stati Uniti e di soddisfare le richieste dei nostri militari preoccupati per i tagli al bilancio della difesa.

Non è il caso di toccare in questa sede il problema più generale degli eventuali limiti al potere parlamentare di sindacato e di indirizzo nei confronti del governo, problema che peraltro richiama quello della vincolatività delle mozioni delle camere, per lo meno dubbia nel nostro ordinamento, al di là di una generica responsabilità politica in caso di mancato adeguamento. Il punto più utile da sottolineare è che il riferimento contenuto nella mozione inibente ogni “ulteriore acquisizione” introduceva un elemento di ambiguità. Esso non sembrava dover essere inteso come un generale retroattivo divieto incidente su politiche di acquisto già determinate (si veda l’audizione del ministro della Difesa, Mauro, nell’indagine conoscitiva della commissione Difesa della Camera il 23 luglio 2013).

In un clima teso il Senato discuteva degli F35 il 15 e 16 luglio 2013, ma i parlamentari non sembravano avere conoscenza dello stato di avanzamento del programma, ovvero non sapevano quanti velivoli il governo si fosse già formalmente impegnato ad acquistare, né il loro costo [Bellandi 2014, 407]. Il ministro della Difesa sostenne che la procedura prevista dalla l. n. 244/2012 non si applicava ai programmi già avviati, come quello degli F35 (il divieto di “ulteriore acquisizione” in sostanza non poteva riferirsi ai velivoli già ordinati al 16 luglio 2013, ma agli altri preventivati) e che comunque il programma era pienamente conforme al Piano di impiego pluriennale trasmesso alle camere nell’aprile 2013.

Il Senato votava una mozione identica a quella della Camera, ma che non sembrava poter impedire, almeno secondo la posizione del governo, gli acquisti già in atto. Il giorno successivo, 17 luglio 2013, la commissione Difesa della Camera deliberava un’indagine conoscitiva sui sistemi d’arma destinata a concludersi il 7 maggio 2014.

Le controversie sulla spesa per gli F35 non erano però terminate e sugli organi di stampa contrari all’acquisto degli F35 proseguivano gli attacchi al capo dello Stato. Il 19 marzo 2014 il Consiglio supremo di difesa esprimeva l’avviso che il disegno complessivo di riorganizzazione delle nostre forze armate dovesse trovare espressione in un libro bianco, fermi restando i provvedimenti da attuare con immediatezza e la necessità di superare le difficoltà relative all’attuazione di provvedimenti già approvati dal parlamento. Veniva stabilito anche il coinvolgimento delle competenti commissioni parlamentari. Il 25 aprile Napolitano ricordava che la Resistenza era stata una mobilitazione armata, sottolineava la necessità di riorganizzare e razionalizzare lo strumento militare e metteva in guardia da vecchie e nuove pulsioni antimilitaristiche con una chiara allusione alla campagna per la rinuncia agli F35. Nella successiva riunione del 18 giugno, il Consiglio supremo di difesa esprimeva pieno sostegno alle linee guida del libro bianco, che venivano inviate alle camere.

A una conclusione si giungeva il 24 settembre 2014. La Camera approvava una mozione che impegnava il governo a riesaminare l’intero programma F35 per chiarirne criticità e costi con l’obiettivo finale di dimezzare il budget finanziario originariamente previsto, così come indicato nel documento conclusivo dell’indagine conoscitiva della commissione Difesa. In tal modo, il finanziamento complessivo sarebbe diminuito da 13 a 6,5 miliardi e si trovava un equilibrio tra le esigenze della difesa e quelle di bilancio. Il Consiglio supremo di difesa era stato uno degli attori principali della tormentata vicenda.



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