Perché molte start up se ne vanno dall’Italia “per crescere”? Che cosa manca al sistema Italia? Ne abbiamo discusso con Andrea Ridi, Ceo e co-fondatore di Rulex Inc., azienda italo-americana che ha sviluppato la prima piattaforma al mondo di cognitive machine learning che permette la monetizzazione dei dati delle imprese e dell’Internet delle Cose, fondendo la facilità d’uso di strumenti di business intelligence con tecnologie altamente innovative come il machine learning. Da un algoritmo, inventato e brevettato dall’anima scientifica, e tutta italiana, del board di Rulex, è nata la tecnologia Rulex dedicata all’analisi avanzata di grosse moli di dati (Big data), per aziende di settori diversi ma accomunate dall’esigenza di monetizzare i propri dati e compiere la trasformazione in Data-driven companies.
Da dove nasce la scelta di trasferire la sede a Boston?
Tutta la ricerca e sviluppo resta a Genova, anzi la potenzieremo, ma la sede commerciale è negli Usa perché gli Stati Uniti hanno le dimensioni di mercato che ci servono per crescere e diventare una multinazionale. Rulex ha fatto sua la dimensione del Glocal: “Think locally, Act globally”.
L’Italia è troppo piccola?
Ha un mercato dell’innovazione troppo piccolo per imprese con tecnologie disruptive. Non mi fraintenda: non si va in America e automaticamente si crea un’azienda di successo. Non è vero che negli Stati Uniti è tutto facile. Negli Usa la concorrenza è spietata e le start up che non sono veramente innovative non hanno nessuna chance. Ma è precisamente questo un mercato dell’innovazione, ultra-competitivo. E senza forti monopolisti, che non hanno vero interesse all’innovazione distruttiva.
Troppi monopoli in Italia?
Troppe posizioni acquisite. All’Italia manca anche un sistema di grandi clienti, è difficile concludere affari, sia sul lato della domanda che dell’offerta. Il rovescio della medaglia in America è che la selezione naturale è implacabile. Per Rulex il confronto col mercato Usa è stato molto importante per darci un contesto.
Non bastava l’idea rivoluzionaria.
L’idea è fondamentale ma nel successo dell’azienda vale non più del 20%. Poi va messo in piedi il resto che serve per creare un’azienda vincente e l’ambiente competitivo aiuta: costringe ad essere veloci, reattivi. Si prendono sberle e si deve reagire in fretta.
Molti giovani infatti vanno nella Silicon Valley a imparare a fare impresa e sviluppare la loro idea hi-tech in un vero e proprio business.
Sì, benissimo. E al tempo stesso: non è grave che i giovani italiani debbano andare nella Silicon Valley per imparare? Perché mancano centri italiani dove si può fare questo? La Silicon Valley è il posto più competitivo al mondo, si deve proprio saltare dal campionato dilettanti alla Serie A? Secondo me ci dovrebbe essere una via di mezzo. A noi è mancata.
In Italia il sistema imprenditoriale deve diventare più “spietato”?
Io penso che un’azienda che a malapena riesce a pagare degli stipendi anche di livello base non è un’azienda che può reggere su un mercato competitivo. Può sembrare spietato, ma è un meccanismo che gioverebbe a tutto il paese. L’Italia ha un tessuto di aziende piccolissime che possono rappresentare un’eccellenza, ma anche generare poche opportunità. Nel caso delle start up, poi, se non decollano ma nemmeno chiudono, finiscono con l’intrappolare talenti.
Talenti che in Italia esistono e su cui voi fate leva.
L’Italia offre un ricco bacino di professionisti preparati e fedeli che contribuiscono al successo di un’azienda. Sono persone su cui si può investire, sul lungo termine. Negli Stati Uniti la media degli stipendi è esageratamente alta e in aggiunta appena arriva un concorrente che offre di più il dipendente se ne va. Questo turnover è un costo e un impedimento alla crescita, oltre che un rischio di perdita di proprietà intellettuale.
Non dirà che i talenti italiani sono convenienti perché low-cost.
No, non considero l’Italia un mercato come l’India. Questo modello non funziona per niente, perché un’azienda innovativa non ha bisogno di venti ingegneri a 100 euro a settimana, ma di due-tre persone molto specializzate e ben pagate. Noi crediamo in personale altamente preparato che partecipa alla creazione del valore in azienda. E poi guardiamo alla qualità della vita del lavoratore. Negli Usa lo stipendio di ingresso nel settore hitech è di 120.000-140.000 dollari annui, ma il potere d’acquisto qual è? In Silicon Valley un affitto mensile può arrivare a 5.000 dollari e chi lavora in Silicon Valley di solito si è formato in prestigiose università dove ha speso decine di migliaia di dollari per la formazione, con debiti che durano per anni. Il datore di lavoro a sua volta spende per assicurazione sanitaria e benefit che hanno costi molto più elevati che in Italia e deve prevedere persino la sostituzione per ogni lavoratore, visto l’alto turnover. In Italia posso dare uno stipendio alto ai miei dipendenti, trovando ottimi talenti, più fedeli, con un costo per la mia azienda molto minore.
Parliamo di Rulex. La vostra tecnologia è unica e innovativa, anche il MIT lo ha riconosciuto di recente. Quali sono i piani di crescita come multinazionale? Per voi cambia qualcosa dopo la Brexit?
Il Regno Unito resta uno dei mercati principali in cui vogliamo espanderci in Europa, insieme a paesi nordici e Germania, che sono i più competitivi ed esprimono la domanda più alta. Però la Brexit ha sicuramente dimostrato che c’è bisogno di forte innovazione nei modelli previsionali: la capacità di capire e prevedere il futuro è un asset fondamentale che dà un enorme vantaggio competitivo nell’odierna economia interconnessa. Qui Rulex si inserisce con una proposta commerciale che è più che mai in linea con quanto chiedono le imprese.
L’Italia che peso ha nel vostro piano di crescita?
L’Italia è un mercato come gli altri se guardiamo alle opportunità di espansione economica, ma con vantaggio unico: è un’eccellente palestra per chi fa ricerca e sviluppo e testa modelli di business. Visto che la competizione sull’innovazione è meno serrata, qui si può sbagliare senza troppi danni (negli Stati Uniti se sbagli puoi anche essere annientato). Ma per noi l’Italia non è solo una palestra: Rulex ha intenzione di diffondere innovazione e stimolarne un intero ecosistema. Il mese scorso a Genova abbiamo anche portato la terza edizione dei Rulex Training Days, in collaborazione con TAG Genova, per far capire l’importanza del Data scientist e formare nuovi Big Data manager promuovendo la piattaforma Cognitive Machine Learning Rulex e le infinite applicazioni che può avere nel business. Insieme ai partner in Italia possiamo generare un effetto virtuoso, rendere anche le altre aziende più innovative e mettere a disposizione la nostra esperienza per favorire l’internazionalizzazione.
Mi sembra che sul mercato del lavoro italiano il giudizio sia positivo. E sulle politiche per l’innovazione?
Ci sono buone politiche ma un grande ostacolo: la burocrazia. Il sistema che dovrebbe sostenere l’innovazione è troppo farraginoso e questo rende le nostre imprese, soprattutto se piccole, più lente e impacciate rispetto a quelle degli altri paesi Ue. Snellire le procedure e cambiare l’approccio sarebbe fondamentale: da noi pesa l’onere della prova che succhia energie e penalizza la capacità di innovare e competere.