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Erdogan il despota: arresti, umiliazioni e pena di morte

Il fallito colpo di stato ad opera di un gruppo sparuto di militari turchi ha aperto la strada a un’azione di violenta repressione da parte del Presidente turco Erdogan.

In appena due giorni ha messo in atto un rastrellamento all’interno di istituzioni, esercito e polizia impressionante. Sono stati destituito oltre 3000 giudici, alcuni di questi sono stati arrestati. Tutti i golpisti sono stati arrestati e in base ad alcune immagini che circolano in rete sono trattati in modo disumano, con il chiaro obiettivo di umiliare e annichilire. 8000 agenti di polizia rimossi dai loro incarichi. E come se non bastasse, Erdogan ha detto che reintrodurrà la pena di morte.

Si tratta della realizzazione di un piano ben studiato che ha come scopo il sovvertimento della già debole democrazia in Turchia. Cosa impedisce ora ad Erdogan, forte del consenso popolare non solo in termini di voto, ma anche di mobilitazione fisica (in migliaia sono scesi nelle piazze contro i militari), di rafforzare il proprio potere e di consolidare un presidenzialismo che ha i tratti della dittatura soffice?

Erdogan è inarrestabile: accusa gli USA di aver ordito alle spalle della Turchia, proteggendo la mente dietro al colpo di stato, l’Imam Fetullah Gulen, da oltre trent’anni negli Stati Uniti in autoesilio e che accusa il presidente turco di aver messo in atto una sceneggiata.

L’Europa è scossa dalla reazione violenta di Erdogan e la Germania chiarisce: con la pena di morte chiusa ogni discussione su un eventuale ingresso nella UE. Gli USA minacciano la cacciata dalla NATO.

La situazione è delicata e allo stesso tempo pericolosissima. La Turchia è un paese geograficamente strategico nella lotta al terrorismo internazionale e al controllo dei flussi migratori verso l’Europa. La situazione era ambigua già prima di ora, ma con un’accelerazione così violenta verso la creazione di un sistema davvero autoritario, l’Unione Europea perde ogni giustificazione al suo tentativo di aprire un dialogo serio e agli accordi fatti in questi ultimi mesi. Una cacciata della Turchia dalla NATO però può significare rompere un equilibrio, seppur precario, tra potenze: a chi guarderà la Turchia uscita dalla NATO? Verso la Russia di Putin? Scivolerà ancora di più verso un islam politico e radicale? Diventerà un Paese pericolo sia per chi ci vive, sia per noi come Unione Europea? Non c’è da scherzare.

Il popolo turco ha conosciuto anni di pace, stabilità e progresso, all’interno di un sistema democratico, per quanto debole. Il tentativo di screditare Gulen sembra anche un modo per sostituirsi a un’autorità morale: brutto, pericolo e già visto film. Sta al popolo reagire, è legittimato, ora, ad alzare gli occhi al cielo, per citare un pensatore del passato, e ristabilire i limiti: il potere appartiene al popolo.

Eventuali interferenze esterne, minacce o rappresaglie di qualsiasi tipo verso Erdogan avranno l’unico effetto, nefasto, di rafforzarlo ulteriormente. Questo accade di solito in sistemi autocratici. Si chiudono a riccio, nel nazionalismo, nella difesa della propria identità e considerando la debolezza generale della struttura-Paese, questa reazione è più che ovvia e prevedibile.

Che fare? Bella domanda. Le opposizioni devono essere sostenute, in qualche modo, nella ricerca di un consenso ampio nella popolazione, affinché Erdogan venga ridimensionato. Prima che sia troppo tardi. All’estero, in Germania, per esempio, gruppi di giovani sostenitori di Erdogan hanno attaccato le sedi dell’organizzazione di Gulen. Un segno bruttissimo di tensione oltre confini che può solo motivare ancora più violenza.

L’Europa e gli Stati Uniti facciano valere il loro peso tramite la diplomazia e collaborino con la Russia, perché questa instabilità politica non giova nemmeno a loro.

 


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