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Cosa succederà all’export dell’Italia in Turchia

Al già ricco dizionario delle possibili complicazioni per lo sviluppo economico mondiale, negli ultimi giorni si è aggiunta una nuova voce: il fallito tentativo di colpo di stato in Turchia. Il Made in Italy nel 2015 ha esportato in questo mercato merci per 10 miliardi di euro.

La quantificazione degli effetti derivanti da un isolamento geopolitico e da un drastico deterioramento finanziario della Turchia, nei conti pubblici e non solo, appare molto complessa. Al momento attuale mancano troppi elementi per definire scenari plausibili, non solo per l’evoluzione macroeconomica di Ankara, ma soprattutto per il ruolo geopolitico e commerciale assunto negli anni dal paese: ponte commerciale tra Occidente e (Medio) Oriente asiatico, attore di primo piano nella guerra all’Is e nelle relazioni tra Nato e Russia, crocevia geografico, ma non solo, delle rotte di migrazione tra Africa ed Europa.

È, però, possibile verificare l’attuale stato di salute economico-finanziaria della Turchia, da tempo inserita in quell’elenco di fragile countries che identifica le economie emergenti che hanno accumulato, a seguito di una tumultuosa crescita, forti squilibri finanziari, risultando così particolarmente esposte a tutte le tensioni sui mercati internazionali. Nel caso turco, una cartina di tornasole della reale fragilità è offerta dal confronto con la situazione del paese a fine anni Novanta, quando per gli effetti del disastroso terremoto, dell’instabilità politica, delle tante crisi delle economie emergenti e di un cambio sensibilmente sopravvalutato, l’economia di fatto andò in default.

Oggi la situazione è molto meno critica rispetto a quindici anni fa: l’inflazione è tenuta stabilmente sotto al 10% per cento, quando nel biennio precedente alla svalutazione del 2001 aveva oscillato tra il 35 e il 70 per cento; il tasso di cambio, libero dalla fissità col dollaro Usa, ha già potuto scontare le difficoltà e incertezze economiche, deprezzandosi di oltre il 30 per cento sul dollaro da inizio 2014 (nel 2001 l’abbandono della fissità del cambio con il dollaro determinò repentinamente una svalutazione superiore al 200 per cento, Fig. 1); riserve valutarie ancora molto consistenti (oltre 130 miliardi di dollari), pari a circa sei mesi di importazioni, contro i circa 30 miliardi di fine anni Novanta; una crescita che, dopo il rimbalzo del 2010-’11, ha oscillato tra il 2 e il 4 per cento, senza rischi di surriscaldamento dell’economia.

Export - Prometeia

Non mancano tuttavia elementi di preoccupazione, legati in particolare all’elevata consistenza del debito estero in valuta, oltre il 45 per cento del pil turco (valore secondo solamente a quello del Cile tra i principali paesi emergenti), per lo più a breve termine (circa un terzo del totale). Una condizione che rende il paese estremamente sensibile a un’eventuale scarsità di capitali esteri, quale uno scenario di isolamento geopolitico potrebbe determinare, anche a causa di un saldo delle partite correnti già oggi strutturalmente negativo, per oltre il 4 per cento del pil.

Ai non completi e non sufficienti cambiamenti macroeconomici si sono però affiancati nel corso degli anni duemila più marcate modifiche nella struttura dell’economia, che hanno fatto della Turchia uno dei nuovi principali produttori manifatturieri sulla scena mondiale. Un dato su tutti: a fronte di circa 340 mila autoveicoli prodotti nel 1997, si è passati a oltre 1 milione e 300 mila del 2015, in larga parte destinati all’export (73 per cento).

Nel comparto automotive la Turchia, grazie agli investimenti esteri, è divenuta importante punto di riferimento per tutta l’area mediorientale, con esportazioni che nel 2015 hanno superato 18 miliardi di dollari (crescita superiore al 2000 per cento rispetto a fine anni Novanta). È, però, l’intero comparto dei beni durevoli a spingere la manifattura turca, con evidenti vantaggi comparati anche nei mobili e negli elettrodomestici (con esportazioni che superano di 4 volte il valore delle importazioni), che nel primo decennio del nuovo millennio sono andati a sommarsi a quelli tradizionali nell’alimentare, nella moda e nei prodotti per le costruzioni (in particolare le piastrelle in ceramica).

L’accresciuta forza nelle fasi di trasformazione manifatturiera non ha però consentito al saldo commerciale di andare in surplus, a causa della crescente dipendenza dall’estero per quanto riguarda componenti e beni strumentali e di quella strutturale in tutta l’industria di base, dalla petrolchimica alla metallurgia. Elementi che configurano la Turchia come uno snodo cruciale delle catene globali del valore, proiettando gli effetti di una sua eventuale grave crisi su un piano mondiale.

In caso di prolungata incertezza, o addirittura isolamento, politico, il mix di dipendenza dai capitali stranieri per gli investimenti e dai mercati esteri per materie prime e beni strumentali renderebbe particolarmente critica la situazione per il comparto produttivo turco. E il quadro sarebbe ancora più critico in presenza di una diminuzione della capacità di spesa sui mercati esteri attraverso una crescita dell’inflazione e/o un deprezzamento della valuta significativi.

Eventi con possibili importanti riflessi anche sull’economia italiana, visto che verso il mercato finale turco nel 2015 sono stati destinati oltre 10 miliardi di euro di merci (il 2.5 per cento dell’export totale italiano, tabella 1) e gli investimenti italiani nel paese sono in rapida crescita (285 imprese turche con partecipazioni italiane, +40 per cento negli ultimi sette anni, con oltre 23mila addetti e 11 miliardi di fatturato). Ancora una volta, come spesso accade quando ad andare in difficoltà sono le economie emergenti, i settori più colpiti sarebbero i beni strumentali, con meccanica ed elettrotecnica che superano i 3 miliardi di export. A seguire – specificità tutta turca – il comparto petrolchimico (oltre 2 miliardi di export, e un peso della Turchia sulle vendite all’estero italiane vicino al 10 per cento, sia per i prodotti petroliferi raffinati che per le materie prime energetiche) e l’automotive, con poco più di un miliardo di euro.

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