La storia si ripete. La Turchia di oggi ci dimostra quanto la democrazia, grande conquista fragile, possa essere strumentalizzata a fini diversi da quelli democratici: è in atto, a livello globale, uno scontro evidente tra il senso profondo della democrazia e la sua “discutibile” applicazione storica.
Chi paga tale scontro, nemmeno a dirlo, siamo tutti noi che pensiamo di vivere nel miglior mondo possibile, quello democratico, mentre – nei fatti – non riusciamo più a vivere la libertà come vorremmo e ci troviamo immersi nella necessità della competizione e della sicurezza a ogni costo. Tra colpi di Stato veri o presunti, tra populismi emergenti e dilaganti, nel dominio del vuoto politico, della “non cultura” tecnocratica e delle minacce asimmetriche, è chiaro che la nostra vita è piuttosto “ridotta” alla esistenza.
Siamo “formalmente” cittadini ma “sostanzialmente” sudditi e tale distanza tra i “due noi” aumenta proprio quando consideriamo la democrazia come un modello certo e non come un processo incerto. Nel primo approccio, che oggi è assai diffuso e che si sposa con una fastidiosa quanto pericolosa retorica dei valori non incarnati nei mondi-della-vita, la democrazia viene spesso “usata” come un’arma, scagliata contro chi sa che la democrazia stessa, per quanto importante, è solo uno strumento e che, in quanto tale, serve ad organizzare la convivenza ma non a legittimare posizioni dominanti, autoritarismi, forme di dominio anche molto pesanti.
Erdogan è in continuità con molti altri “sperimentatori” autoritari e i suoi comportamenti, ridicolmente condannati da un “Occidente” ipocrita, ci dimostrano che nulla, tanto meno la democrazia, può essere dato per acquisito una volta per sempre. Insisto, ancora una volta, sulla necessità di condividere un “progetto di civiltà”; il mondo a-polare, complice il nostro silenzio irresponsabile e indifferente, sembra andare in direzione ostinata e contraria.