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Le leadership fatue di Nigel Farage e Boris Johnson

I due paladini del “leave”, Boris Johnson e Nigel Farage, dopo aver vinto la loro battaglia nel referendum Brexit si sono entrambi tirati in dietro.

Johnson ha detto di non essere adatto a fare il primo ministro, mentre Farage ha confessato che non gli piace fare il politico e che vuole indietro la sua vita.

Dopo mesi ad arringare le folle, a promettere magnifici e progressivi destini per il loro Paese e per il loro popolo, a giganteggiare su schermi televisivi e prime pagine di tutto il pianeta, eccoli lì, rimpiccioliti e curvi sotto il peso del risultato che hanno ottenuto e che forse non volevano.

Farage era sorridente e disteso quando a poche ore dalla chiusura delle urne sembrava che il Remain avesse vinto di misura. Fu rapido e generoso a concedere la vittoria e prendere per sé l’altra metà meno poco del Paese senza la responsabilità di doverla guidare da qualche parte.

E lo stesso era l’umore di Boris quella notte, pimpante e pronto come sempre alla battuta. Contento anche lui di festeggiare una grande e gratuita vittoria morale.

Poi invece hanno vinto sul serio e hanno cominciato a balbettare, a guardare esterrefatti il sogno divenuto realtà, e alla fine se la sono data a gambe.

Forse, d’ora in poi, bisognerà trovare un’altra lingua con cui esprimere il concetto di leadership.

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