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Lessico famigliare: equilibrio fra silenzio e conversazione

100 anni fa, il 14 Luglio 1916, nasceva a Palermo Natalia Ginzburg, la grande scrittrice del Novecento divenuta famosa per l’opera “Lessico famigliare” vincitrice nel 1963 del Premio Strega. Un romanzo di ricordi e di racconti, a metà fra l’autobiografia ed il diario, nel quale la voce narrante della Ginzburg ci racconta la Torino fra gli anni Venti e Cinquanta del ‘900.
“Furono, i primi anni di Torino, per mia madre, anni difficili; era appena finita la prima guerra mondiale; c’era il dopoguerra, il caroviveri, avevamo pochi denari. (…) Io ero, a quel tempo, una bambina piccola; e non avevo che un vago ricordo di Palermo, mia città natale, dalla quale ero partita a tre anni”.
Natalia Levi era l’ultima dei cinque figli Levi, una famiglia ebrea che si trasferisce da Palermo a Torino: l’infanzia e l’adolescenza vissute nel periodo del fascismo e delle leggi razziali, l’età adulta del dopoguerra, l’amore per il marito Leone Ginzburg, la frequentazione con scrittori ed intellettuali come Foa, Turati, Montale, Pavese. Questo e altro materiale ancora viene narrato con un linguaggio confidenziale e accattivante in grado di conquistare gradualmente il lettore e diventare, appunto, per lui “famigliare”.
Nonostante la ferocia della guerra, delle violenze e della morte, resta un “nocciolo duro” a tenere unita la famiglia della Ginzburg (e di fatto tutte le famiglie del mondo). Modi di dire tipici, espressioni caratteristiche di ogni membro della famiglia, frasi che in un solo istante richiamano una determinata situazione o un certo oggetto. Il lessico è la chiave di volta della memoria e diventa subito memoriale, in un delicato equilibrio fra silenzio e conversazione.
“Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico“, per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, […] testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti piú diversi della terra, quando uno di noi dirà — egregio signor Lippman — e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: “Finitela con questa storia! L’ho sentita già tante di quelle volte!“”.


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