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Perché Europa e Cina bisticciano su commercio, alluminio e Mes

EMMA MARCEGAGLIA

Doveva essere il summit del rilancio della cooperazione economica e industriale tra Cina ed Europa. Ma qualcosa è andato storto tra le due superpotenze ed il diciottesimo vertice tra Bruxelles e Pechino, svoltosi nella Grande Sala del Popolo, con un focus specifico sulla Brexit, è finito per essere una presa d’atto delle distanze che separano Bruxelles dall’ex Celeste Impero.

I SEGNALI DELLA TEMPESTA

Segnali inequivocabili di un malessere diffuso che si è manifestato quando il ministero degli Esteri cinese ha annunciato che la conferenza stampa congiunta tra il premier Li Keqiang e i presidenti della Commissione Jean-Claude Juncker e permanente Donald Tusk è stata cancellata. La mossa non sarebbe del tutto sganciata dal responso del Tribunale dell’Aja sul contestato contenzioso marittimo territoriale tra Cina e Filippine nel mar Cinese meridionale che è stato sfavorevole a Pechino.

LE DIVERGENZE TRA EUROPA E CINA

Ma a pesare sono state anche le condizioni che Bruxelles ha posto a Pechino per sbloccare il capitolo degli investimenti reciproci e per riequilibrare la bilancia commerciale tra i due colossi che pende a favore di Pechino che esporta il doppio di quello che importa nel suo territorio. I leader dell’Unione europea hanno esortato più volte durante il summit la Cina ad applicare le norme di mercato nella riconversione della sua industria siderurgica e ad aprirsi di più alle imprese europee, se desidera ottenere il riconoscimento di economia di mercato.

LE PAROLE DEL PRESIDENTE JUNCKER

Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha insistito affinché la Cina “offra alle imprese europee lo stesso livello di apertura di cui beneficiano le imprese cinese nel mercato europeo”. Juncker ha inoltre chiesto che il governo di Pechino conduca una profonda riforma della sua industria siderurgica seguendo le regole del libero mercato, in modo da correggere il suo eccesso di capacità di produzione e le distorsioni che crea negli altri Paesi. “So quanto doloroso possa essere questo processo – ha ammesso Juncker – Conosco i problemi che i nostri amici cinesi stanno affrontando” nella riduzione della produzione di acciaio “ma quando diciamo che le regole del mercato devono essere applicate, i cinesi sanno esattamente che questo, in termini concreti, significa esattamente la chiusura delle acciaierie”.

I PERCHE’ DEI NIET DELLA CINA

Da parte di Pechino c’è stato un rifiuto a considerare questo tema come decisivo nei rapporti bilaterali e a pesare è anche il rallentamento dell’economia cinese che questo anno crescerà del 6%, quindi in notevole flessione rispetto alle più rosee aspettative (+7,5%) e quello che è emerso è che il controllo dello stato sull’economica è ancora forte. Le aziende statali infatti continuano a dominare sia i settori strategici del Paese che i listini delle borse.

TIMORI E AUSPICI DI BUSINESS EUROPE

A lanciare l’allarme era stato stata anche Emma Marcegaglia, a Pechino in qualità di numero uno del Business Europe, un club di alto livello che gestisce i rapporti economici tra i due paesi. Cina e Unione Europea devono continuare a cooperare aveva insistito l’ex presidente di Confidustria ma “con paletti molto chiari” e Pechino deve risolvere il problema della sovrapproduzione. Proprio il tema della sovrapproduzione è stato per Marcegaglia, il punto di frizione più forte tra Unione Europea e Pechino. “Va risolto assolutamente” – ha affermato – “La overcapacity potrebbe essere anche in altri settori domani, non solo nell’acciaio. Fino a oggi non abbiamo visto azioni concrete. C’e’ proprio un gap tra le affermazioni che vengono fatte a livello centrale e l’attuazione delle cose che si dicono”. “Noi vogliamo che si mantengano strumenti difensivi per il trading, quindi anche gli anti-dumping e che ogni decisione anche da parte della Commissione Europea su questo tema vada presa sulla base di un impact assessment fatto bene”. Marcegaglia ha evidenziato anche le ricadute del riconoscimento del Mes alla Cina, e cioè che “se noi considerassimo la Cina come un’economia di mercato a tutti gli effetti, questo ci porterebbe a non potere utilizzare di fatto dazi anti-dumping e l’impatto sull’occupazione sarebbe importante”. Il riconoscimento del Mes a Pechino deve essere, poi, unanime, da parte di tutti gli attori coinvolti. “Le decisioni europee vanno coordinate anche con gli altri grandi blocchi. Se noi decidessimo di dare il market economy status, e gli Stati Uniti no, avremmo un doppio problema”.

L’APPELLO DELLE INDUSTRIE MANIFATTURIERE

Sui negoziati ha pesato anche la pressione delle industrie europee che alla vigilia del summit anche l’appello lanciato da AEGIS Europa  – un’alleanza di oltre 30 associazioni manifatturiere europee che rappresentano oltre 500 miliardi di euro di fatturato annuo – a prendere “una posizione chiara contro il dumping, l’eccesso di capacità produttiva e sovvenzioni illegali cinesi”. “La Cina non è un’economia di mercato e, pertanto, non può essergli concesso lo stato di economia di mercato dall’UE. È di fondamentale importanza per tutte le industrie europee che le misure antidumping siano calcolate correttamente e rimangano efficaci e possibili  in base al diritto commerciale dell’UE,” aveva detto Milan Nitzschke, portavoce di AEGIS Europa.

COSA DICONO LE AZIENDE DELL’ALLUMINIO

Sulla stessa linea Guy Thiran, direttore generale della Eurometaux, l’associazione europea dei metalli non ferrosi: “le sovraccapacità cinesi  influiscono su tutti i metalli non ferrosi. Prendete per esempio l’alluminio: la quota della Cina sulla produzione mondiale è salito alle stelle a oltre il 50% negli ultimi dieci anni. Nello stesso periodo, un terzo di fonderie europee hanno chiuso i battenti. Con l’eccesso di capacità della Cina ora cinque volte più grande di produzione primaria europea, la concessione del MES presenta prematuramente un rischio reale per 80.000 lavoratori nel settore dell’alluminio”.

LA MERA DICHIARAZIONE DI INTENTI FINALE

Così quello che doveva essere un patto d’acciaio tra Ue e Cina per rilanciare i rapporti commerciali e gli investimenti reciproci è naufragato in una dichiarazione d’intenti che lascia il tempo che trova e che rischia di essere inefficace anche perché la Gran Bretagna, anche a seguito della Brexit, da domani potrà alzare il suo ponte levatoio per salvare le sue aziende nazionali lasciando l’Europa nel marasma più assoluto con Pechino che ha dimostrato ancora una volta che non intende indietreggiare ma difendere i suoi interessi nazionali.

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