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Mike Pence è il vice di Trump, governatore ultra-conservatore

E’ Mike Pence, governatore dell’Indiana, un ultra-conservatore, il candidato alla vice-presidenza che affiancherà Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca: il candidato repubblicano ha sciolto con un tweet le sue riserve, dopo settimane d’illazioni e di scrematura delle alternative a tre (oltre Pence, il governatore del New Jersey Chris Christie e l’ex speaker della Camera Newt Gingrich). Dunque, il Nyt ci aveva azzeccato, dando fin da giovedì Pence sicuro.

“Ho il piacere di annunciare che ho scelto il governatore Mike Pence come mio candidato vice”: questo il tweet di Trump che, anche in seguito alla strage di Nizza, ha rinviato ogni altra dichiarazione a una conferenza stampa oggi alle 11 ora di Washington, le 17 italiane.

Fervente cattolico di origini irlandesi, avvocato di professione, Pence, 57 anni, in carica da tre, è sempre stato un sostenitore dei Tea Party, l’ala più populista del proprio partito. Vuole intensificare i controlli alle frontiere per contenere l’immigrazione, è contrario a riconoscere i diritti di gay e lesbiche e anche alle semplici unioni civili tra persone di sesso diverso, vuole limitare rigorosamente la spesa pubblica e si oppone alla chiusura della prigione di Guantanamo, a Cuba.

ALLA FINE ERANO RIMASTI IN TRE

Erano rimasti in tre per un posto solo: tutti uomini, anche se donne sono state prese in considerazione. Soprattutto, tutti conservatori a 18 carati. Uno, addirittura, l’emblema stesso della destra americana che, dal Congresso, negli Anni 90 sfidò – e in parte influenzò – Bill Clinton.

Lunedì si apre a Cleveland, nell’Ohio, il cuore dell’America profonda e contadina, la convention d’un partito repubblicano che deve ancora finire di digerire la vittoria di Trump alle primarie. L’esito dell’assise è scontato: ammesso che ci siano state le tanto sussurrate manovre di palazzo contro il magnate, non c’è aria di ribaltoni dell’ultimo momento. Al massimo, si potranno contare gli assenti: non ci sarà neppure Sarah Palin, perché – è l’inverosimile giustificazione – l’Ohio è troppo lontano dall’Alaska dove vive.

Il nome più conosciuto, all’opinione pubblica americana come a quella europea, era Newt Gingrich, leader dei repubblicani vent’anni fa, nello scontro frontale con la Casa Bianca di Bill Clinton. Contro il presidente fu lanciata la commissione d’inchiesta sul Sexgate, ma era Hillary la figura più odiata: troppo affermata, troppo femminista.

Lo disse chiaramente Kathleen, l’anziana madre di Gingrich, in un’intervista del 1995. Le fu chiesto cosa pensasse il figlio dell’allora first lady. “Tra lei e me, pensa che sia una cagna”, fu la risposta. All’epoca il titolare della definizione (ripresa in questi mesi dai sostenitori di Trump sui loro blog e i loro cartelli) era lo speaker alla Camera, grazie a una vittoria elettorale ottenuta nel 1994 in virtù della firma in pubblico di un “Contratto con l’America”, il modello cui si ispirerà Silvio Berlusconi con il suo “Contratto con gli Italiani”. Clinton viene rieletto nel 1996, ma i suoi critici non mancano di sottolineare che il Crime Bill varato prima della consultazione è più ispirato alla Tolleranza Zero propugnata dai repubblicani che non alle idee liberal di tanta parte dei democratici.

Una decina di anni più tardi, Gingrich lascia il Congresso, superato a destra dal Tea Party, ed entra in una lunga apnea, con la sola eccezione di un tentativo di candidatura alla Casa Bianca nel 2012, sulla base di una piattaforma in cui si potrebbero scorgere molti dei temi cari all’attuale candidato. Con il quale è d’accordo su quasi tutto. Quasi: certe volte Donald esagera anche per i suoi standard. Il suo apporto poteva essere quello d’un conservatore radicale sentito come nemico di Washington, ma che conosce tanto bene Washington da essere considerato parta dell’establishment egli stesso. Gingrich, però, poteva anche spaventare definitivamente l’elettorato moderato, che non è tanto, ma tanto spesso è decisivo. Forse per questo Trump ha guardato altrove.

Più al centro, anche se in termini relativi, siede Chris Christie, il governatore del New Jersey, che all’inizio della campagna correva in proprio. Anzi: per lui Trump era un personaggio carnevalesco, sempre pronto ad abbaiare (Trump ricambiava la cortesia ricordando gli scandali finanziari in cui erano coinvolti i collaboratori di Christie). Ma poi il governatore, fiutando il vento un attimo prima degli altri, è stato il primo personaggio di prima fila dell’establishment repubblicano a schierarsi apertamente per il miliardario; ed è scoppiata la pace.

Molto in linea l’uno con l’altro su temi quali l’Islam e il terrorismo, potevano formare un ticket in cui la novità dell’uno sarebbe stata completata dall’esperienza dell’altro. Senza trascurare che Christie ha mostrato di sapere battere in New Jersey un partito democratico particolarmente forte. Ma questo è stato anche il suo punto debole: la base repubblicana vicina ai Tea Party ha già difficoltà ad accettare Trump, per le sue origini newyorkesi da liberal camuffatosi da conservatore. Un’impressione che si rafforzerebbe se il vicepresidente fosse stato il governatore di uno stato del Nord-Est: troppo squilibrio geografico e politico.

Ecco allora un altro governatore, ma di uno stato del Midwest come l’Indiana, tradizionalmente repubblicano, anche se nel 2008 voltò le spalle a John McCain per tuffarsi tra le braccia di Obama. Mike Pence ha, tra i suoi vanti, l’aver abbattuto le tasse come nessun altro mai dalle sue parti, e avere saputo contemporaneamente garantire un’eccellente manutenzione delle strade. Un miracolo, si direbbe. In fondo, è quello che Trump promette all’America confusa e impoverita dei maschi bianchi disoccupati di mezz’età: ordine e torta di mele. E poi è pure contro i matrimoni omosessuali ed è rigorista sull’aborto. Un Trump dal volto umano, insomma, che, però, rischia di mettere contro il ticket repubblicano, una volta per tutte, l’elettorato femminile.

(post tratto dal blog di Giampiero Gramaglia)

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