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La moria dei matrimoni

I bestioni lasciavano insepolti i morti, esercitavano nelle selve la venere canina, risolvevano ogni conflitto con la violenza. Poi nacquero gli istituti «dell’incivilimento», che «diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui» (Foscolo, Sepolcri): «Tutte le nazioni così barbare come umane, tutte hanno qualche religione, contraggono matrimoni solenni, seppelliscono i loro morti» (Vico, Scienza Nuova). Matrimonio e famiglia in guise diverse sono durati dalla preistoria sino alla rivoluzione industriale, con la quale entrano in una crisi profonda, che non li sta rinnovando ma portando alla estinzione.

Questa, almeno, è la profezia del Censis nello studio appena sfornato «Non mi sposo più». Ma come è possibile? Lo mostrano i numeri: dal 1964 (8,1 ogni mille abitanti) i matrimoni sono sempre calati. Drastica la diminuzione di quelli religiosi, da 412.000 a 108.000; ma la caduta è generale, nel complesso oggi sono il 3 per mille. Proiettando questa tendenza costante e crescente, nel 2031 dovremmo celebrare l’ultimo matrimonio religioso. E insieme, dal 1964, calano le nascite: oggi l’Italia occupa l’ultimo posto fra le nazioni europee (ce lo mostra Eurostat).

Ma proprio qui è il sofisma: i trend demografici non sono né omogenei né irreversibili. E tuttavia la previsione, spostata dal determinismo alla probabilità, appare molto credibile. Le ragioni paiono evidenti.

La famiglia, dovunque, è sempre stata gerarchica e paternale (il matriarcato è una ipotesi tramontata). Essa è entrata in crisi quando la divisione dei ruoli tra maschio e femmina è stata sconvolta. L’emancipazione femminile, giusta e inevitabile, ha distrutto una famiglia senza saperne creare una nuova.

Colpa delle donne, ha scritto Fukuyama nel suo La grande distruzione (1999). Meglio non parlare di colpa, ma di trasformazioni sociali, alle quali l’Occidente non ha saputo dare una risposta adeguata.

Il matrimonio si è estinto perché non serve più. Tutto ciò che con esso si faceva si fa anche senza: il legame si è fatto fievole e lo scioglimento, anche di quello fatto in chiesa, sempre più facile, il sesso e la fedeltà hanno perso ogni legalizzazione, sono divenuti atti soggettivi e polimorfi, l’adulterio non è più un reato, la paternità è riconosciuta anche fuori del matrimonio, i beni rimangono per lo più separati.

Tutta la nuova legislazione non tutela l’istituzione, ma le coppie (comunque formate), riguarda soprattutto la libertà dei coniugi e dei figli, non è un diritto «della» ma «nella» famiglia.

Il matrimonio, che era un contratto stipulato dalle famiglie dei due sposi, oggi è un atto di libera scelta. Privo di quelle strutture sociali e religiose, che un tempo lo reggevano e orientavano, è divenuto un amore «romantico», esprime la scelta soggettiva dei due partner.

Al pari della società, è un legame «liquido» e «flessibile», a tal punto «debole» che molti oggi lo ritengono inutile. Se c’è l’amore, che bisogno ce n’è? Quando non c’è più, diviene un fastidio di cui liberarsi al più presto. Cresce l’abitudine di stipulare, all’atto del matrimonio, anche le clausole del suo scioglimento.

Difficile non dare ragione al Direttore del Censis, Massimiliano Valerii: «Il matrimonio non è più l’evento centrale della vita delle persone». Come sempre, il più intelligente è stato Bergoglio: «Non ci sono famiglie regolari e irregolari». Giustissimo: non ci sono più né le famiglie, né le regole.

Anche senza famiglia c’è l’amore (fin che dura), c’è la convivenza (fin che non annoia), c’è il partner (parola più gradevole delle retrive «marito e moglie»). Perciò sposarsi è un calcolo sbagliato, che sociologicamente e giuridicamente offre più svantaggi che vantaggi.

Niente è più sciocco che definire gli eventi storici come «buoni» o «cattivi», dato che in ognuno di essi i guadagni e le perdite, il progresso e il regresso sono compresenti. La società preindustriale privilegiava gli ideali e le istituzioni come fondamenti del bene sociale, per difenderli non esitava a sacrificare anche le persone.

Oggi la società postindustriale punta tutto sulla libertà e sui diritti dei singoli, la durata e la funzionalità delle istituzioni passano in secondo piano.

È una società non più individualista, come quella della borghesia liberale, che aveva conservato la famiglia e la nazione, ma narcisista, composta di tanti atomi singoli, ciascuno delle quali realizza se stesso servendosi dello «Stato Provvidenza», «dall’utero al sepolcro».

Non v’è dubbio che tra le finalità del welfare rientra il sostegno economico delle famiglie. Ma è una illusione fuorviante pensare che tale aiuto favorisca l’istituto matrimoniale: la crescita delle sovvenzioni è andata di pari passo con la sua dissoluzione. La famiglia nell’Ottocento era povera, ma anche più solida. Segno evidente che le vere ragioni della crisi non sono in primo luogo economiche, ma antropologiche e religiose.

Uno studio comparato delle civiltà mostra che esse progrediscono quando il matrimonio è forte: accadde anche da noi dopo la seconda guerra mondiale, la ricostruzione ebbe il suo centro propulsore nella famiglia.

Dopo il 1964 è crisi generale, oggi divenuta angosciosa e massiccia, da essa cerchiamo di uscire, ma senza poter più puntare sulla famiglia, che si sta estinguendo.

Come aveva capito Vico: «Da religione, matrimoni e seppellimento incominciò la civiltà, senza di esse il mondo s’infierisce e si rinselva di nuovo». E ancora prima di lui il demoniaco Machiavelli: «Dove manca il timore di Dio, conviene che o quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore di un principe che supplisca ai difetti della religione» (Discorsi, I, 11).

(Articolo su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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