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Come cambia la politica britannica con la Brexit

Il terremoto-Brexit sta cambiando la politica britannica, ridisegnandone i paradigmi, come non succedeva dal 1979, anno della rivoluzione thatcheriana. Un primo ministro dimissionario, uno scenario di cospirazioni e pugnalate da dramma scespiriano per la sua successione, un leader dell’opposizione laburista, Jeremy Corbyn, sfiduciato dal suo gruppo parlamentare ma arroccato sulla sua poltrona, una nuova ondata di nazionalismo indipendentista scozzese e, infine, last but not least, la possibilità, per ora molto remota, di una riunificazione dell’Irlanda. Un panorama che, secondo l’ex vice-premier Conservatore, Michael Heseltine, “segnala la più grave crisi costituzionale dai tempi della Seconda Guerra Mondiale”.

Anche uno dei vincitori del referendum, Nigel Farage, ha gettato la spugna: dopo essersi ripreso la Gran Bretagna, ora vuole riprendersi la sua vita, ha detto l’ormai ex leader dello Ukip, non nuovo a questo genere di exploit, visto che si era dimesso anche dopo le elezioni dello scorso anno.

Ma anche senza il pungolo di Farage, il prossimo primo ministro  –  probabilmente Theresa May, ma attenzione anche alla brexiteer Andrea Leadsom – si troverà in una situazione di oggettiva difficoltà, considerando anche che il suo tempo verrà prosciugato dalle trattative con Bruxelles per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

La verità è che siamo di fronte a uno spartiacque fondamentale nella storia del sistema politico. Gli anni del liberal consensus thatcheriano – e poi blariano e cameroniano – sembrano superati, con la questione brexit che sposta il baricentro della governabilità dall’euro-realismo all’euro-scetticismo, ormai trasformatosi in euro-antagonismo. Il rapporto con l’Europa, che ha disgregato il partito Conservatore dal 1990 in poi, determinerà chi sarà il nuovo premier. Per questo la stra-favorita dai bookmakers, Theresa May, una remainer ancora più riluttante di Cameron, si è affrettata a dire che “la brexit è la brexit” e non ci sarà alcun tentativo di restare nell’Unione passando attraverso la porta secondaria.

Scossoni di questo tipo sono già capitati nella storia della Gran Bretagna. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Winston Churchill fu sconfitto poiché non capì che al centro del sistema vi era l’allora nuovo welfare state promosso dal Piano Beveridge e adottato dal governo del laburista Clement Attlee, basato sulle assicurazioni sociali, che si sarebbe occupato dei cittadini britannici “dalla culla alla tomba”. Un modello socio-economico, successivamente implementato anche dal partito Conservatore, definito “la politica del consenso”, che prevedeva una forte espansione salariale per fare fronte alle richieste del sindacato, vera architrave del sistema.

Entrato in crisi in modo drammatico questo modello negli anni Settanta, Margaret Thatcher fu la prima a capire che bisognava andare oltre, limitare il potere potenzialmente sovversivo di alcuni sindacati come quello dei minatori, e adottare un nuovo modello economico, quello liberale basato sulla libera intrapresa, il controllo dell’inflazione: nacque così il liberal consensus che dalla Thatcher in poi ha guidato il Paese attraverso leader di partiti e di estrazione culturale e sociale diversa, come John Major e Gordon Brown, passando per i due che più hanno presidiato il radical centre, il centro radicale, paventato dal mondo dell’economia e della finanza e dalla grande stampa di settore come l’Economist e il Financial Times: Tony Blair, laburista, e David Cameron, Conservatore, ed erede di Blair più che di ogni altro leader Tory.

La lotta per adottare un nuovo paradigma euro-antagonistico, meno orientato al mercato e più vicino alle istanze sociali della Gran Bretagna profonda, quella del sud che ha bocciato la permanenza dell’UE su basi nostalgiche, e quella delle ex-aree industriali del nord, che l’ha bocciata per l’influsso della manodopera non specializzata degli immigrati dell’Europa dell’est, è solo all’inizio. Già i papabili nuovi premier si stanno affrettando a dire pubblicamente che “il posto della Gran Bretagna non è l’Europa ma il mondo”, e che porteranno avanti politiche più restrittive in tema di immigrazione. Il rapporto con l’Europa, utilizzato dalle minoranze interne ai partiti per minare la credibilità dei leader, e per sovvertire le maggioranze politiche, diventa una questione reale. Il liberal consensus, un sistema che, soprattutto nell’era-Blair, aveva apparentemente trasformato la Gran Bretagna in un paese a bassissima conflittualità politica e sociale è definitivamente sul viale del tramonto. La palla passa ai brexiteers. Quale nuovo consensus sapranno imporre?

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