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Tutte le sfide delle performance nella pubblica amministrazione

Lo scorso 17 giugno ha visto la luce, ben 7 anni dopo il Dlgs 150 del 2009 (il così detto decreto Brunetta) il Dpr 115 che dà attuazione al decreto Brunetta per quanto attiene la misurazione e la valutazione della performance nella Pubblica Amministrazione. La lenta marcia del governo mirante a migliorare il rendimento della nostra amministrazione continua.
Qui vanno sottolineate due cose e va fatta una considerazione di fondo. Le cose che vanno segnalate sono due sommessi plausi all’azione di governo. Innanzi tutto il fatto che il governo, per lo meno in questa materia, non tende ad affermare una velleitaria linea di discontinuità con il passato ma, al contrario, tende a proseguire i tentativi fatti dai vari governi della Repubblica, a iniziare dal così detto decreto Cassese del 1993 (Dlgs 29/1993). Il Dpr 115 dello scorso giugno segue un altro provvedimento del governo, il Decreto Legge 90 del 2014 (trasformato in legge con la Legge 114/2014) con cui, tra l’altro, si sottrae la misurazione e valutazione della performance all’Autorità Anticorruzione per passarla al Dipartimento della Funzione Pubblica. Si prende giustamente atto che la performance non è un problema di legalità ma un problema di professionalità.
Terminati i plausi vale la pena fare alcune considerazioni sull’impatto che questa scia di provvedimenti sta avendo e avrà in futuro. Da normale cittadino, se penso all’amministrazione di 20 o 30 anni fa e guardo a quella odierna, non posso fare a meno di vedere un generale cambiamento in senso migliorativo. La situazione resta però ancora largamente insoddisfacente.
Quando parlo con i colleghi stranieri che operano in Italia (amandola) o con i miei ex studenti che hanno dovuto lasciare (con rammarico) l’Italia e operano con successo all’estero, trovo che tutti concordano su una cosa: i provvedimenti presi dai vari governi non poggiano su di una diagnosi meditata delle cause che stanno alla base dello scarso rendimento delle nostre strutture pubbliche. Tutti concordano, poi, sulla natura di queste cause.
Qui non abbiamo lo spazio per entrare in una analisi scientifica seria (che manca nella letteratura). Vogliamo però evidenziare alcuni fenomeni emblematici che possono aiutarci a capire, in maniera intuitiva, la natura del problema. Iniziamo dal problema dei problemi, quello della firma degli atti a valenza esterna all’amministrazione. La L. 241/1990 all’art. 5 comma 1 prevede che le amministrazioni individuino i propri procedimenti e che per ognuno di essi individuino un responsabile di procedimento cui può anche essere data la responsabilità completa del provvedimento. Al di là del linguaggio ritualistico del diritto, questo significa che le amministrazioni devono individuare chi prepara la decisione dell’amministrazione (il responsabile di procedimento) e devono stabilire se chi ha preparato la decisione può anche firmarla, divenendo così responsabile del provvedimento. Per una serie di motivi (per lo più riconducibili alla difficoltà di superare prassi consolidate), le amministrazioni non concedono il potere di firma al responsabile di procedimento ma concentrano tutte le firme sul dirigente. Questa prassi ha una serie di conseguenze disfunzionali, che qui riassumeremo.
Innanzi tutto chi redige la decisione, non firmandola, non si sente responsabile di quello che fa e, dunque, non è motivato a lavorare con attenzione. Per di più l’indennità di produttività viene calcolata in capo al dirigente che appone la firma tralasciando il funzionario che ha materialmente redatto l’atto, funzionario che considera con invidia il fatto che qualcun altro sarà premiato per il lavoro da lui fatto. Il dirigente, da parte sua, si trova ogni giorno la scrivania sommersa da decine (spesso centinaia) di documenti da firmare. Di fronte a questa mole di firme, il dirigente ha due alternative: o rilegge tutti i documenti redatti dai suoi collaboratori prima di firmarli e, in questo modo, accumula ogni giorno un ritardo inenarrabile e crescente, o mette delle firme inconsapevoli.
Il fatto è che la nostra amministrazione si è consolidata quando le cose da fare erano poche e semplici ed ha adottato, inconsapevolmente, un modello di lavoro di tipo “artigianale”, dove ogni ufficio è una sorta di bottega artigiana. In queste botteghe il dirigente non è qualcuno che ha una professionalità nel dirigere e coordinare il lavoro di più persone ma è soltanto qualcuno che è particolarmente competente in un settore.
È questo il problema di fondo che va affrontato e che, sin qui, viene solo sfiorato dai vari interventi del legislatore. Si tratta di passare da una amministrazione che lavora in maniera artigianale ad una che lavora in maniera industriale. Il passaggio non è facile e andrebbe programmato.
Un limite del Dpr 105/2016 appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale consiste nel fatto che non incide sufficientemente sull’organizzazioni degli O.I.V. (organismi indipendenti di valutazione). Questi organismi si sono venuti consolidando sul modello esistente di amministrazione e, quindi, misurano i prodotti realizzati ma non si chiedono se questi prodotti siano necessari, quale impatto questi prodotti abbiano sulla società circostante né si chiedono se questi prodotti potrebbero essere realizzati in maniera diversa.
Detto diversamente, se vogliamo veramente migliorare la performance della nostra pubblica amministrazione dobbiamo fare un salto di qualità negli schemi mentali che usiamo per valutare i problemi e per ricercare una soluzione ad essi.

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