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Vi racconto forza e debolezze di Erdogan dopo il colpo di Stato stroncato in Turchia

Stefano Cingolani

L’attentato a Nizza, la ritirata del Califfo, la pubblicazione delle pagine top secret del rapporto sull’11 settembre, le tensioni anche recenti tra Erdogan e Obama, il fallito golpe in Turchia. C’è un filo che collega questi eventi che si sono succeduti nello spazio di pochi giorni? Pur stando attenti a non cadere nella tentazione di piani e strategie globali, bisogna di rispondere sì, c’è e ha a che fare con il giro di vite contro l’islamismo e la liquidazione del Califfato, dei suoi alleati e dei suoi protettori.

Gli Stati Uniti e i paesi europei (meglio non parlare di Unione europea in questo caso) nella lotta contro il terrorismo islamico hanno due spine nel fianco: la prima di più lunga data è l’Arabia Saudita, la seconda la Turchia di Erdogan. Il problema è che sono esattamente i due paesi islamici che un tempo erano alleati di ferro degli americani. I sauditi fin dal patto stipulato tra F.D. Roosevelt e Ibn Saud, i turchi perché membri della Nato e guardiani del suo fianco sud-orientale.

Con l’affermarsi negli anni ’90 di un islamismo politicamente e ideologicamente radicale i due paesi hanno cominciato a vacillare. Nella famiglia reale saudita che controlla tutto il potere, la storica alleanza con i musulmani wahabiti è arrivata al punto di creare una vera e propria fazione sostenitrice del fondamentalismo fino ad appoggiare la sua sfida all’Occidente. Questa deriva appare chiara nel rapporto sull’11 settembre. In Turchia è andato al potere il partito guidato da Erdogan che in una prima fase aveva fatto pensare a una felice combinazione tra islamismo e liberal-democrazia, finché ogni illusione delle anime belle e ottimiste è stata smentita dai fatti.

Trasformatosi in una figura autocratica, una sorta di nuovo Sultano populista, il presidente turco ha riplasmato il paese spingendosi fino al limite di una revisione costituzionale ispirata alla sharia come denunciato dal presidente della Corte di cassazione. Ma il principale cambiamento che probabilmente ha innescato il fallito golpe riguarda l’esercito il quale da un secolo, dai tempi di Kemal e dei suoi giovani turchi, è stato il guardiano, spesso non democratico, della laicizzazione del paese e della sua occidentalizzazione.

Erdogan ha costruito attorno a sé un nucleo di pretoriani formato dalla polizia, ha decapitato i servizi segreti, ha rovesciato le gerarchie militari. I risultati si sono visti. Da una parte quella componente ancora kemalista dell’esercito che non digerisce la svolta islamista è stata spinta a ribellarsi, dall’altra non ha trovato il sostegno sufficiente per vincere. Il risultato sarà disastroso, perché adesso arriverà un giro di vite e una “pulizia” dell’esercito che finirà per rafforzare il Sultano il quale, come si è visto, può contare sul sostegno popolare a Istanbul la città in apparenza più occidentale, quella dove è stato a lungo sindaco.

Qual è l’impatto sulla lotta all’Isis? Sappiamo che Erdogan ha giocato su più tavoli, ha sostenuto più o meno apertamente il Califfato e poi ha dovuto accettare che i cieli turchi fossero solcati dagli aerei americani che bombardavano i macellai di Abu Bakr al Baghdadi. Gli americani di lui non si fidano e proprio adesso che la guerra all’Isis si avvia verso la svolta finale e il territorio occupato dagli uomini neri viene strappato pezzo per pezzo dagli alleati degli americani in Iraq e dalle truppe sostenute dai russi in Siria, ci sarebbe bisogno di una Turchia in grado di fare da sostegno e punto di equilibrio, per bilanciare l’influenza di Putin da una parte e dall’altra tagliare la strada alla ritirata dell’Isis. Tuttavia, dopo l’Egitto, difficilmente gli Stati Uniti avrebbero potuto accettare un altro regime militare come baluardo alla islamizzazione, spiega al Financial Times l’ammiraglio William Fallon che ha a lungo guidato le operazioni in Medio oriente.

Il golpe con la scia che avrebbe lasciato dietro, dunque, poteva introdurre un serio elemento di instabilità. Il suo fallimento peggiora la situazione. Washington e Berlino alla fine hanno appoggiato il governo legittimamente eletto, può darsi che siano stati costretti a farlo e forse non lo hanno fatto gratis. Vedremo quel che ha concesso Erdogan per salvare il suo potere. E ciò che ha ottenuto. Una cosa è certa: la repressione in Turchia sarà durissima. Il putsch militare è fallito, ma non per questo ha vinto la democrazia.

La lezione da trarne riguarda in qualche modo anche l’Arabia Saudita dove non c’è sentore di golpe, ma dove il cambiamento al vertice e l’arrivo al potere di una generazione più giovane potrebbe aprire nuove prospettive. Anche perché la crisi petrolifera spinge la monarchia saudita a introdurre cambiamenti tali da rendere il paese meno dipendente dal barile di greggio. L’esito non è scontato e c’è da stare in allerta. Tuttavia ogni scorciatoia, sia essa affidata ai militari o a gruppi all’interno della classe dominante, è destinata a fallire. Meglio non provarci nemmeno e ripartire dal basso, un percorso più lungo, ma forse più duraturo.


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