Ha fatto scalpore l’affermazione di David Folkerts-Landau. Secondo il capo economista della Deutsche Bank, “una ricapitalizzazione per 150 miliardi di euro del settore bancario dell’Unione Europea è inevitabile“. A conti fatti sarebbe assai meno di quanto gli americani sborsarono nel 2008 per salvare i loro istituti. E’ assai probabile che Folkerts-Landau parli pro domo sua visto che la Deutsche Bank stessa naviga in acque tutt’altro che tranquille. Dall’inizio dell’anno a oggi il titolo ha perso quasi il 50 per cento, mentre quello della Commerzbank il 44 per cento. Una performance assai peggiore di quella dei loro maggiori concorrenti europei, annotava il sito finanziario www.finanzen200.de. Ultima considerazione a proposito di Deutsche Bank: qualcuno si ricorderà forse ancora quanto l’allora Ceo Josef Ackermann dava consigli ad Angela Merkel su come salvare gli istituti di credito tedeschi, affrettandosi ad aggiungere che lui per la Deutsche Bank non accetterebbe invece mai aiuti di Stato.
Nonostante lo stupore per le parole di Folkerts-Landau, a tenere banco sulle prime pagine dei quotidiani in Germania è però l’allarme per gli istituti di credito italiani (e grande attesa per quel che uscirà dal vertice Ecofin in corso). Si teme un effetto domino che potrebbe trascinare con sé le banche di tutta l’Unione.
Ora però un quotidiano ha deciso di cantare fuori dal coro, di ragionare in modo più strategico e comprensivo, cioè non solo sul piano finanziario ma anche politico. Si tratta della Süddeutsche Zeitung, giornale progressista che già in passato ha sostenuto una strategia più solidale e ha ospitato ripetutamente gli interventi del rinomato economista Peter Bofinger, da sempre possibilista verso gli eurobond e sostenitore di una politica meno austera per uscire dalla crisi.
Oggi la SDZ affidava il suo commento sulla situazione italiana a Nikolaus Piper, caporedattore finanza e autore del saggio “La grande recessione”, premiato nel 2009 come il saggio economico dell’anno.
Piper non fa sconti all’Italia. Osserva che d aver fatto da detonatore all’attuale crisi è stata la Brexit, ma “la crisi covava già da anni”, scrive, e l’esito non ha fatto che acutizzarla. Innanzitutto per le enormi difficoltà in cui versa il Monte dei Paschi di Siena. Ma, osserva Piper, non è solo MPS a soffrire. Anche il valore del titolo della più grande banca italiana Unicredit è crollato di un terzo. Complessivamente, riassume l’articolo, l’Italia siede su una montagna di 360 miliardi di crediti deteriorati, il che equivale a un quinto del Pil.
“Per riuscire a valutare la dimensione del problema” – scrive Piper – “bisogna tornare indietro di quattro anni. Al 26 luglio del 2012 quando Mario Draghi, presidente della BCE, lanciò il suo piano ‘whatwever it takes“. Da allora, spiega l’autore, si sono formate due scuole di pensiero. I critici accusano Draghi di aver messo in mano ai governanti europei una cambiale in bianco e di aver tolto la pressione affinché attuassero le riforme strutturali necessarie a una ripresa su fondamenta stabili. I sostenitori del governatore sono invece dell’avviso che Draghi abbia salvato l’euro e senza la sua politica del tasso 0 non saremmo nemmeno più qui a parlare di riforme.
Annota Piper: “Il problema è che entrambe le scuole di pensiero hanno ragione. Nessuno di noi vuole veramente sapere come sarebbe messo il mondo oggi se Draghi non avesse posto un altolà alle speculazioni contro l’unione monetaria. E’ però altrettanto vero che molti governi, ai quali Draghi ha fatto guadagnare tempo, non l’hanno usato. E l’esempio più macroscopico è proprio l’Italia“. Perché nessuno ha voluto vedere, nonostante fosse chiaro a tutti, al più tardi allo scoppio della crisi, come fosse messo il settore bancario. Già nel 2008 gli istituti avrebbero necessitato di un importo miliardario a tre cifre per liberarsi dai crediti deteriorati, invece non s’è fatto nulla, anzi s’è continuato come se nulla fosse. “E questo ha avuto gravi conseguenze per l’intera economia italiana: banche sottocapitalizzate concedono prestiti sempre più risicati, il vuol dire investimenti minori da parate delle imprese e di conseguenza non si creano nuovi posti di lavoro“.
Piper ammette che non sono però solo gli istituti italiani ad annaspare. Se prima della crisi avevano fatto soldi con operazioni troppo rischiose, oggi, anche per via dei tassi di interesse a livello minimo (e qui il dito è puntato di nuovo contro Draghi) non guadagnano abbastanza. “Un esempio lampante è la Deutsche Bank il cui valore oggi è inferiore che ai tempi della crisi finanziaria“. Certo ci sono cause autoprodotte, ma altre sono esterne, prodotte appunto da Draghi, ribadisce l’SDZ.
A questo punto c’è solo più una cosa da fare, secondo Piper, e cioè ristabilire la fiducia e stabilizzare la situazione italiana. E gli strumenti ci sono, anzi lo strumento c’è, secondo l’autore, ed è Matteo Renzi, un capo del governo deciso a fare le riforme.
Certo il suo piano di salvataggio presenta quattro gravi debolezze, secondo Piper: “I debiti privati diventerebbero pubblici; il fondo è troppo piccolo; il piano va a cozzare contro le regole Ue; e infine, contraddice tutto quello che ci si era giurati subito dopo la crisi finanziaria, e cioè che in futuro sarebbero stati gli azionisti e i debitori a pagare e non il contribuente“.
Ma nel caso dell’Italia, osserva l’autore, la maggior parte dei debitori non sono di speculatori, ma piccoli risparmiatori, i cui risparmi per la vecchiaia sono composti da titoli bancari. Il che – spiega al lettore tedesco Piper – vuol dire che “chi dovesse insistere sul rispetto rigido delle regole da parte di Renzi, chiederebbe nei fatti l’esproprio del piccolo risparmiatore“. Ma Renzi – di ciò Piper pare convinto – questo non lo farà perché non vuole giocarsi il referendum costituzionale in ottobre. E fa bene. Non ultimo perché “quello che ora veramente importa è più che l’osservanza ortodossa delle regole, la velocità e l’accuratezza delle riforme. Qualsiasi cosa Renzi faccia, non deve essere troppo timida, se no la crisi tornerà da qui a poco“. E sarebbe utile che Renzi potesse contare su potenti alleati: “La Commissione Ue, così come il governo federale tedesco, dovrebbe sostenere Renzi il più possibile. E questo, perché non ci sono più tanti riformatori in giro per l’Europa“.