Come si direbbe a Roma, Mario Draghi si è dimostrato ‘un tipo tosto’. E’ riuscito, negli anni del suo mandato, a modificare l’orientamento della Banca Centrale Europea, allontanandola progressivamente dalla ortodossia “tedesca” alla quale è ispirato il trattato di Maastricht ed alla quale si erano rigidamente attenuti i suoi due predecessori, l’olandese Duisenberg e il francese Trichet. Passo dopo passo la ha avvicinata alla filosofia ‘interventista’ della Fed americana, fino a farle adottare all’inizio dello scorso anno il Quantitative Easing, la politica straordinaria di espansione monetaria che era stata il marchio distintivo della Fed a partire dal 2008.
La Banca Centrale Europea di Mario Draghi non considera che il ciclo economico debba fare integralmente il suo corso, accettando tutta la fase negativa della crisi come una specie di esercizio di purificazione spirituale al termine del quale chi sopravvive è più forte e più in grado di correre con le proprie gambe. Ritiene che la politica monetaria debba e possa fare la sua parte nell’assicurare un andamento soddisfacente dell’economia europea e che in situazioni particolarmente difficili, come l’attuale, non possa e non debba avere timore di utilizzare misure ‘non convenzionali’ a sostegno della ripresa.
La differenza che corre fra queste due politiche non è marginale. Non c’è un ponte che le colleghi. Le separa un abisso. Sono due filosofie; due visioni contrapposte del funzionamento dei sistemi economici. Una si affida esclusivamente alle forze spontanee del mercato; l’altra pensa che la mano pubblica (anche solo quella della politica monetaria) abbia un compito ed un ruolo da svolgere. Il capolavoro ‘politico’ di Draghi è stato quello di sottrarre all’influenza tedesca e di portare dalla propria parte una larga parte del Consiglio direttivo della Banca e di condurlo a condividere l’idea che la BCE debba avere un ruolo attivo nel fare uscire l’eurozona dalla lunga depressione post-2008.
Ora però Draghi si trova di fronte a una difficoltà vera. Lo si capisce da tutti i suoi interventi più recenti e in particolare da quello di ieri al Forum economico di Bruxelles dove ha tenuto la quinta lezione intitolata a Tommaso Padoa Schioppa.
Dopo avere forzato l’espansione monetaria attraverso il QE mediante gli acquisti di titioli di Stato, ora la BCE sta per aggiungervi anche gli acquisti di titoli di società private. E tuttavia l’economia dell’eurozona resta testardamente ferma. L’inflazione non si schioda dai suoi attuali livelli ed anche i segni di ripresa dell’inizio dell’anno di sono spenti. I rischi, come lo stesso Draghi ha dovuto francamente ammettere, sono tutti verso il ribasso. Per Draghi è indispensabile che il QE funzioni e che si abbiano presto segni di una reazione positiva agli stimoli introdotti. In caso contrario riprenderebbero fiato le posizioni di quelli che erano ‘filosoficamente’ contrari a dare alla Banca questo profilo.
“In fondo il Quantitative Easing non sta funzionando” – aveva osservato una giornalista una settimana fa dopo la riunione mensile del Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea. E Draghi non aveva respinto in toto quest’osservazione critica. Aveva risposto – e lo ha ripetuto ieri – che le analisi della BCE indicano che, senza la straordinaria espansione monetaria di questi ultimi 18 mesi, il peggioramento delle prospettive dell’economia mondiale manifestatosi fra la fine del 2015 e l’inizio di quest’anno, avrebbero colpito assai più fortemente l’eurozona. In questo senso – ha detto – si può sostenere che il QE abbia funzionato bene.
Ma ha poi ammesso che serve qualcosa di più. La politica monetaria da sola non basta. Ha spiegato che servono le famose riforme strutturali che dovrebbero far crescere la produttività in tutta l’Europa (ma chi dovrebbe comprare le merci prodotte con la maggiore produttività se in Europa oggi la domanda è stagnante?), ma ha anche aggiunto che per far crescere la produttività servono infrastrutture e per stimolare la ripresa serve una composizione della spesa pubblica “più favorevole alla crescita” . A Bruxelles è stato ancora più esplicito. Ha lamentato che tutto il peso è caduto sulle spalle della Banca centrale e questo ha fatto sì che la ripresa produttiva sia stata più lenta di quanto sarebbe stata se “le politiche di bilancio avessero sostenuto di più questo sforzo [della BCE]”.
Probabilmente più in là di così il Presidente della Banca Centrale Europea, già sotto attacco in Germania per la sua eccessiva apertura alle ragioni della crescita, non può o non osa spingersi. Ma noi possiamo e dobbiamo tradurre in chiaro queste due ultime affermazioni: il Presidente della BCE riconosce ormai apertamente che serve una politica di deficit pubblico e che l’Europa deve abbattere quest’ultimo ostacolo se vuole fare ripartire la propria economia.
In primo luogo le infrastrutture. E’ chiaro che un sistema efficiente di infrastrutture aumenta la produttività delle imprese che di esse debbono servirsi, ma l’effetto principale di una politica delle infrastrutture riguarda il breve periodo (anche perché completare le infrastrutture richiede molti anni) ed è una politica keynesiana in senso stretto. La costruzione delle infrastrutture crea una domanda aggiuntiva di lavoro e di prodotti necessari alla loro realizzazione. La spesa per infrastrutture agisce quindi sull’offerta nel medio periodo, ma agisce subito sulla domanda ed è questo l’effetto più importante in una fase di depressione come quella attraversata dall’eurozona.
Draghi ha anche parlato di una ricomposizione della spesa pubblica in modo da renderla più favorevole alla crescita. In realtà, seppure non possa dirlo apertamente, Draghi sa che serve un forte stimolo fiscale che provenga dal deficit. Lo dice con una forma ambigua, ma la sostanza è che l’eurozona può ripartire se c’è uno stimolo aggiuntivo che provenga dalla domanda. Solo a quelle condizioni il QE è efficace. Forse è venuto il momento che il Presidente della BCE parli in modo ancora più esplicito.
Il QE ha funzionato negli Stati Uniti perché era unito a una forte politica di stimolo fiscale. La sua limitata efficacia nell’eurozona è dovuta al fatto che le politiche fiscali dell’area sono e restano orientate alla restrizione, anche quelle dei governi che, a parole, sembrano orientati in maniera diversa. Mettono l’obiettivo del risanamento dei conti prima di quello del ritorno alla crescita.
Il paradosso dell’eurozona è che oggi la Banca Centrale è più keynesiana che monetarista, mentre la Commissione e i Governi europei sono più monetaristi che keynesiani. Un’Europa così contraddittoria, incapace di definire una scelta che vada a favore della ripresa ed utilizzi in modo coerente tutti gli strumenti diponibili, rende molto debole la posizione della BCE. Per questo a noi sembra di cogliere nelle parole di Mario Draghi il senso di una crescente solitudine. I governi europei dovrebbero avere più coraggio e agire di più.
(Articolo pubblicato sul quotidiano il Mattino)