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Vi racconto le ultime capriole di Donald Trump sull’immigrazione

Donald Trump

Donald Trump ora tentenna sulla immigrazione. Prima aveva promesso di rimpatriare forzosamente ben undici milioni di immigrati clandestini presenti negli Usa. Poi, intervistato da FoxNews, ha chiarito che quelli che lavorano e pagano regolarmente le tasse possono restare in America.  L’immigrazione piaga aperta negli Usa come in Italia, un tema che accende gli animi degli elettori e che in Texas, stato di frontiera con il Messico, è un argomento super caldo dell’agenda elettorale.

“Cosa penso del muro proposto da Trump? Che va fatto il prima possibile qui siamo all’invasione del nostro paese e voi liberal europei non potete capirlo”. Chuck si avvicina alla sessantina e si è guadagnato la vita con i cavalli ed i rodei. San Antonio, 1,4 milioni di abitanti è la più grande città del Texas a ridosso del Messico. Lo spagnolo è parlato e scritto ovunque e l’immigrazione un problema esplosivo. “Non ce la facciamo più, sono troppi i messicani e i latinos non possiamo più pagargli le scuole ed i servizi con le nostre tasse”, rincara Larry di Racho Cortez a Bandera, “non voto Trump solo perché vuole fare il muro con il Messico, perché alcune sue idee non le condivido ma di quelle della Clinton non ne condivido nessuna”.

A San Antonio nel Texas profondo la maggioranza pro Trump è schiacciante. La crisi petrolifera ha colpito molte certezze locali ed è indubbio che la manodopera a basso costo messicana toglie posti di lavoro ai giovani bianchi con bassa scolarità. Ma il favore verso Trump va oltre il confronto tra un candidato repubblicano ed uno democratico. Il tycoon ha risvegliato istinti profondi della coscienza americana. È una questione che non si può liquidare come semplice antipolitica.

C’è la convinzione che nel mondo contemporaneo, dominato dalla facilità di avere ogni informazione in rete, e dove il web ha rivoluzionato il rapporto tra eletti ed elettori, i politici di professione non servano più come prima. Che per fare il presidente degli Stati Uniti non serva più un cursus honorum politico. “Non voglio più i Clinton ed i Bush; voto Trump perché incarna la vera innovazione politica e perché farà ripartire l’economia”, aggiunge Chuck, “se negli anni ottanta non mi fossi comprato azioni della Apple oggi non ce la farei a vivere tranquillo. Il nostro comandante in capo deve sapere di business”.

La Silicon Valley preferisce la Clinton ma l’americano medio impoverito dalla crisi pende verso Trump. Uno dei tanti paradossi americani: l’innovazione è liberal ma quelli che si vedono pagate le pensioni grazie ai dividendi ed ai capital gain della California sono per Donald. “Qui la crisi del petrolio ha picchiato duro e ora la gente vuole più America, più vera e tradizionale America e non essere governata dalla solita élite uscita dalle università dell’Ivy League”, chiarisce Larry mentre mi offre una Lone la birra simbolo del Texas, “stavolta la partita è tra le élite e gli americani di ogni giorno. La Clinton vive a Washington da venticinque anni e da sempre di politica. Trump è uno di noi, lontano dal palazzo e che si guadagna da vivere lavorando nel mercato senza ricevere stipendi o trasferimenti pubblici”.

L’America profonda aiuta a capire perché, nonostante tutti gli errori e le gaffes in serie di Trump, la campagna elettorale di Hillary Clinton non riesca a mobilitare e ad appassionare gli americani. L’ultimo sondaggio Gallup le assegna il 41% delle intenzioni di voto contro il 37% del suo avversario, numeri che certificano come la spallata non ci sia stata. Nessun distacco incolmabile li separa, nonostante Trump abbia già cambiato due volte il suo staff ed avrebbe dovuto, quindi, pagare pegno nelle intenzioni di voto. Nella realtà la corsa presidenziale resta apertissima e si giocherà tutta nelle prossime nove settimane e nel rush finale la Clinton entra senza aver saputo ancora convincere gli elettori non tradizionalmente democratici che è proprio lei la candidata giusta. Vista da San Antonio, Washington è lontanissima.

La sfida è aperta e si giocherà anche nelle vastità degli Usa centrali. Agli occhi dell’americano medio quello in corso non è il confronto accreditato in Europa: il barbaro contro la normalità. Per il texano di tutti i giorni è soprattutto la sfida tra l’America senza catene e con poca politica e il paese dei pochi ricchi, ben educati e sofisticati. Quelli che viaggiano e guadagnano votano in maggioranza Clinton, quelli senza passaporto impoveriti dalla globalizzazione e dalla crisi preferiscono Trump. Ennesimo paradosso della contemporaneità. La partita comincia solo ora e sarà testa a testa vero.

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