Con i funerali solenni eppur discreti, in una palestra spoglia e con il vescovo che ha chiesto a Dio, con disarmante semplicità, “ora che si fa?”, si è chiuso il primo e più doloroso capitolo. Tre giorni dopo il sisma che ha devastato il cuore del centro Italia, le massime autorità dello Stato, a cominciare dal presidente Mattarella, hanno voluto essere presenti accanto alle trentacinque bare allineate e ai familiari distrutti. Non per fare passerelle, le istituzioni, né per sgomitare sotto i riflettori, com’è d’uso fra i politici, ma per portare in silenzio e con onore l’abbraccio di un’Italia che si è dimostrata unita, commossa e generosa. Come sempre nel momento della verità.
Quanta dignità abbiamo visto negli abitanti delle zone colpite, e molti di loro colpiti negli affetti, gente che pur avrebbe il diritto di urlare la sua disperazione a fronte di scuole ricostruite con criteri anti-sismici, ma sbriciolatesi. Quanta capacità di soccorso e meravigliosa dedizione abbiamo ancora una volta sperimentato tra i volontari sul campo, la Protezione civile che si conferma un’eccellenza della nazione, e la catena di cittadini d’ogni parte della Penisola che dona tutto quel che può donare: la solidarietà in Italia è una cosa seria. E poi l’amore del mondo verso il nostro Paese, testimoniato persino con monumenti illuminati col verde, bianco e rosso della nostra bandiera. Siamo un grande Paese anche per popoli vicini o lontani, ma tutti amici.
Possiamo essere orgogliosi di noi stessi, e dobbiamo dircelo, perché anche nel modo di vivere un lutto nazionale si rivela la grandezza delle persone. Ma adesso si apre il dopo. Adesso la politica, che per una volta ha evitato polemiche e strumentalizzazioni, ha il dovere di far seguire i fatti alle parole espresse. “Non vi lasceremo soli”, hanno detto Mattarella e Renzi. “Ricostruiremo dov’era e com’era”, hanno assicurato in tanti, archiviando l’idea di spostare i residenti dalle loro radici verso anonime “città nuove”. Governo e opposizioni concordano sulla necessità che l’Italia preservi il suo incanto universale, e protegga i suoi cittadini, investendo nella prevenzione, anziché affidandosi solo allo Stato e ai volontari a catastrofe avvenuta. Ecco, la civiltà di un Paese si misura anche sulla capacità della sua gente e dei suoi amministratori di saper guardare lontano. Gli italiani hanno dimostrato di che pasta e di che cuore sono fatti. Ora tocca alla classe dirigente nazionale e locale: mettano al sicuro la nostra Italia.
(Articolo pubblicato su Bresciaoggi e Il Giornale di Vicenza e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)