Lo sappiamo: un anno così nessuno se lo ricorda. Chi ha esperienza di scuola, da trent’anni o più, non ricorda di essersi mai trovato a vivere una situazione simile a quella di questi mesi. Soprattutto, non si è mai trovato a vivere una simile incertezza. Ovviamente mi riferisco non solo al blocco dei contributi di cui abbiamo già parlato ma anche alla sorte dei docenti tutti, dipendenti della scuola pubblica, statale e paritaria.
Proviamo a fare un po’ di storia e a ricostruire come siamo arrivati a questo punto. Una data: 13 luglio 2015: entra in vigore la legge 107/15, quella della Buona scuola, per intenderci. Preceduta da un’ampia consultazione, suffragata da analisi precise nei diversi ambiti, tra le varie novità introdotte, la legge dichiarava la volontà di abolire il precariato – problema storico della Res publica – e di eliminare l’annoso problema delle graduatorie ad esaurimento, frutto di una politica trentennale che ha visto nella scuola il migliore fra gli ammortizzatori sociali. Conseguentemente, già a fine luglio 2015, iniziavano le chiamate da parte degli Uffici scolastici per la firma dei contratti a tempo indeterminato. Terminata questa prima fase di assunzioni, ne iniziavano altre che culminavano nella cosiddetta Fase C quando, ad anno scolastico iniziato, furono firmati altri contratti a tempo indeterminato per il cosiddetto organico di potenziamento che però, almeno per quest’anno, si è risolto nel far confluire i docenti nelle sale professori dei diversi istituti pubblici statali in attesa di essere chiamati per supplenze o altre attività. D’altro canto, va riconosciuto l’aver consentito ai docenti assunti in questa fase di prendere l’aspettativa fino al 30 giugno, in modo da permettere la conclusione del servizio presso la scuola pubblica, statale o paritaria, dove il docente lavorava. Ovviamente, per garantire il diritto degli studenti alla continuità didattica. Nella seconda parte dell’anno scolastico che era iniziato come appena descritto, viene bandito un concorso (previsto dalla legge 107/15) per abilitati. E qui arriviamo al cuore della questione. La tempistica prevista era: entro metà maggio le prove scritte, correzione degli scritti entro metà giugno, prove orali entro metà luglio.
Sappiamo che così non è stato. A parte per qualche classe di concorso più fortunata delle altre, siamo a fine luglio e non sappiamo ancora l’esito della prova scritta. Risultato: le scuole pubbliche paritarie si trovano nella seguente condizione: alcuni docenti hanno deciso non liberamente (e il motivo della non libertà lo conosciamo) di passare allo Stato, per provvedere alla sostituzione, occorre assumere personale abilitato, il personale abilitato ha sostenuto ovviamente il concorso. Conseguenza, a rigore di logica aristotelica: o si assume personale abilitato con il rischio che a settembre (o peggio ad anno scolastico iniziato) la persona prescelta non sarà più disponibile perché vincitrice di concorso o si assume personale non abilitato.
Questa, in estrema sintesi, la situazione. Come al solito occorre analizzarla con obiettività. Innanzitutto il problema del precariato andava sicuramente affrontato con decisioni risolute, perché profondamente ingiusto. Si potrà discutere sulle modalità di impiego del personale, ma si dovrà riconoscere al Governo il merito di aver dato la possibilità a migliaia di docenti di essere assunti a tempo indeterminato. Anche l’indizione di un concorso va registrata come cosa positiva per tutti quei docenti che, pure abilitati, erano stati esclusi dalle graduatorie. Come al solito sono le modalità, le tempistiche, gli interessi di parte a prevalere. Come si può bandire un concorso e prevedere una remunerazione oraria di 1 euro/h a quei malcapitati che devono sobbarcarsi l’onere di correggere le prove scritte? A meno che non si pensi di procedere come in passato: tra le migliaia di compiti, ne venivano scelti alcuni per la correzione e tutti gli altri buttati al macero.
Risultato: dimissione delle commissioni, ulteriore ritardo. Ma andando a monte della questione: è il sistema che fa acqua, un sistema che, come non garantisce la libertà di scelta educativa alla famiglia, non garantisce ai docenti la libertà di scelta del posto di lavoro, causando migrazioni verso la scuola pubblica statale a motivo dello stipendio più alto. Un situazione che lede tutti: docenti, famiglie, studenti della scuola pubblica, e, si badi bene, non solo di quella paritaria – colpita dall’esodo – ma anche di quella statale che non riesce a impiegare razionalmente le proprie risorse. Ecco perché chi ha a cuore il bene della società non può che condividere la battaglia per la libertà di scelta educativa: questa situazione lesiva – ripeto – di tutta la scuola pubblica non si sarebbe creata in un sistema libero per tutti, famiglie, alunni e docenti.
La soluzione di diritto c’è rafforzata dai numeri il “costo standard di sostenibilità per studente”.