Skip to main content

Ecco cosa evitare per non far afflosciare ancor più il Pil

La crescita del pil italiano continua a deludere. Le previsioni sono riviste continuamente al ribasso: per il 2016 siamo passati dal +1,6 per cento dell’aggiornamento del Def 2015 approvato dal governo Renzi a settembre scorso, al +1,2 per cento del Def 2016 varato appena a marzo passato. Dagli ultimi dati dell’Istat emerge un ulteriore rallentamento, con una crescita zero nel secondo trimestre dell’anno, con una variazione acquisita pari al +0,6 per cento.

Il quadro europeo è contraddittorio: mentre crescono la Germania e la Spagna, rispettivamente con un +0,4 ed un +0,7 per cento, a frenare ci fa compagnia la Francia, anch’essa ferma nel secondo trimestre.
Il governo, intanto, è alle prese con la preparazione del bilancio per il 2017 e della consueta manovra di fine d’anno: c’è chi chiede ancora nuove riforme strutturali, dopo decenni di timidezza.

Piuttosto che guardare avanti, e fare sempre nuove previsioni, è il caso di fare un passo indietro di cinque anni, tornando all’aprile del 2011: per l’Italia era ancora un periodo di relativa calma, prima delle turbolenze scatenatesi da metà anno, culminate con il Vertice del G20 a Nizza e il cambio del governo, con Mario Monti al posto di Silvio Berlusconi. Ad agosto, il quadro si era fatto convulso: la comunità internazionale era preoccupata per la tenuta del debito pubblico italiano, e il 5 di quel mese i Governatori della Bce Jean Claude Trichet e della Banca d’Italia Mario Draghi dettarono con una lettera a firma congiunta una serie di severe prescrizioni di politica economica e di bilancio: anticipo del pareggio strutturale e riforme. Tutto doveva cambiare: così è stato, ma in peggio.
Nell’aprile del 2011, infatti, il futuro dell’Italia era ancora tinto di rosa: si prevedeva una crescita robusta, trainata dagli investimenti fissi lordi e un debito pubblico in calo. Secondo il Fmi, nel quinquennio 2011-2016 il pil dell’Italia sarebbe dovuto crescere del 7,9 per cento rispetto al livello raggiunto nel 2010. A fine periodo, il tasso di disoccupazione sarebbe sceso al 7,4 per cento. Il rapporto debito pubblico/pil sarebbe passato dal 119 per cento del 2010 al 117,9 per cento del 2016. Gli investimenti nell’economia reale sarebbero risaliti al 21 per cento del pil, cumulando nel periodo un consistente 123,3 per cento.
Ad aprile scorso, a consuntivo del quinquennio, il quadro è stato nettamente peggiore: la crescita è stata negativa del 2,6 per cento; la disoccupazione è salita all’11,4 per cento rispetto all’8,3 per cento del 2010; il rapporto investimenti/pil è stato del 16,7 per cento rispetto al 20,5 per cento del 2010. Il rapporto debito pubblico/pil non è salito di 3 punti rispetto al 115 per cento del 2010, come si prevedeva nel 2011, ma di ben 18 punti, arrivando al 133 per cento.

Occorre chiedersi se l’accumularsi in questi anni di una così enorme distanza tra previsioni e risultati, in termini di caduta del pil e non di crescita, di aumento della disoccupazione e non di una sua riduzione, di minori investimenti e di peggior rapporto debito pubblico/pil tra le previsioni ottimistiche dell’aprile 2011 ed i risultati registrati, nonostante le numerose manovre finanziarie e le riforme susseguitesi, sia dipeso dalla scarsa reattività del sistema delle imprese, che non ha saputo approfittare delle condizioni di eccezionale favore messe a disposizione dalla politica monetaria, ovvero dai gravi errori della politica di bilancio.
Se, dunque, nelle previsioni economiche a lungo termine tutto si confonde, e magari aggiusta, nel breve termine si capisce quando si verificano i cambiamenti di rotta più rilevanti. Ad aprile 2011, per l’Italia del governo Berlusconi il Fmi prevedeva una crescita dell’1 per cento per l’anno in corso, mentre per il 2012 stimava un più consistente +1,3 per cento. La crescita andava aumentando lentamente, ma con regolarità, toccando il +1,43 per cento nel 2016. La chiusura del 2010, a preconsuntivo, stimava un +1,3 per cento.

Un anno dopo, nell’aprile del 2012, il quadro si era fatto assai più fosco: mentre il 2011 si chiudeva con un +0,4 per cento del pil, per il 2012 si prevedeva un -1,9 per cento. Il costo degli aggiustamenti fiscale era alto. Curiosamente, però, il consuntivo del 2010 era stato migliore delle stime fatte un anno prima: il pil era cresciuto dell’1,8 per cento anziché dell’1,3 per cento. L’economia italiana, prima delle manovre economiche correttive, era andata meglio del previsto: se nell’aprile del 2011 era stata sottostimata la crescita del 2010, probabilmente il quadro previsionale non era affatto eccessivamente ottimistico. Nell’aprile 2012, la proiezione della crescita italiana con orizzonte al 2016 divenne drammaticamente più bassa rispetto a quella di un anno prima: appena il +2,14 per cento anzichè il +7,9 per cento di un anno prima. Il rapporto debito pubblico/ pil, il tema cruciale del risanamento richiesto all’Italia dalla comunità internazionale e nella citata lettera dei Governatori, risentì della recessione economica indotta dalle manovre di bilancio restrittive, con il risultato di peggiorare. Invece di ridursi costantemente rispetto al 2010, cresceva fino al 123,4 per cento nel 2013, per poi calare al 118,9 per cento nel 2016. Già nell’aprile del 2012, quindi, il Fmi prevedeva che l’effetto recessivo sull’economia reale delle manovre di finanza pubblica, avrebbe portato nel lungo termine ad un peggioramento del rapporto debito/pil: nel 2016, sarebbe stato del 118,9 per cento anziché del 117,9 per cento come stimato un anno prima.

Due anni dopo, nell’aprile del 2013, le previsioni del Fmi si fanno ancora peggiori: il calo del pil nel 2012 era stato del 2,4 per cento e non solo del -1,9 per cento. L’effetto recessivo si trascina: nel 2013, la contrazione sarà dell’1,4 per cento e non dello 0,3 per cento. Nel quinquennio 2011-2016 si passa dal +7,9 per cento stimato nel 2011, al 2,14 per cento previsto nel 2012, al +1 per cento del 2013. Gli effetti della recessione hanno un effetto devastante sul rapporto debito/pil: continua a crescere, con un picco che arriva al 130,8 per cento nel 2014, e non già solo al 123,4 per cento nel 2013. Scenderà poi, per arrivare solo al 125,6 per cento nel 2016. Nel frattempo, la disoccupazione cresce al 12% e gli investimenti toccano il livello minimo sul pil con il 17,6 per cento, rispetto al 20 per cento del 2010.

Sempre nell’aprile del 2013, il governo Monti approvò il suo ultimo atto di politica di bilancio: il Def prevedeva che nel 2014 il rapporto debito/pil sarebbe arrivato al 129 per cento, con un incremento di 10,2 punti rispetto alla previsione contenuta nel Def approvato dal medesimo governo Monti un anno prima. Gli errori della politica economica e di bilancio, in termini di eccezionale differenza tra le stime circa le conseguenze indotte nell’economia ed i risultati per la finanza pubblica, risalgono dunque al biennio che va dalla seconda metà del 2011 alla prima metà del 2013, coinvolgendo l’ultima concitata fase del governo Berlusconi e l’intera durata del governo Monti. A settembre 2013, varando l’aggiornamento del Def, il governo Letta si limitò a confermare le stime fatte dal governo Monti. Spettò al governo Renzi, appena entrato in carica, prendere atto nell’aprile del 2014 che il rapporto debito/pil di quell’anno sarebbe stato pari al 134,9 per cento: una enormità in più rispetto al 118,2 per cento stimato dal governo Monti due anni prima.

Per capire chi ha sbagliato, e perché, basta mettere a raffronto le previsioni del Fmi dell’aprile del 2011 con quelle dell’aprile scorso relative ad una serie di Paesi: Cina, Francia, Grecia, Germania, Italia, Spagna e Stati Uniti. Ci sono Paesi che hanno dovuto effettuale violente correzioni fiscali, ed altri che ne sono andati esenti.

Per la Cina, nel 2011 si prevedeva una crescita nel quinquennio pari al 57,1 per cento, mentre ad aprile scorso il risultato è del +45,5 per cento: la correzione è stata negativa del 20 per cento. Il debito pubblico cinese è passato dal 35 per cento al 47 per cento del pil, con un incremento di 12 punti. La Francia, a fronte di una previsione iniziale di crescita dell’11,6 per cento, ha conseguito un +5,3 per cento, con una correzione negativa del 53 per cento. Il debito pubblico francese è passato dall’85 per cento al 98 per cento del pil, accumulando 13 punti, uno in più della Cina. La Germania, che era accreditata di un +11 per cento di crescita, qualche decimale meno della Francia, ha conseguito un +9,2 per cento, con una correzione negativa del 16 per cento: manovre fiscali non ne ha fatte ami. Il debito pubblico tedesco è sceso dal 78 per cento del 2011 al 68 per cento del 2016: la crescita economica ha ridotto il peso del debito. La Grecia, invece, è passata da una previsione iniziale di crescita del +7,9 per cento a un risultato di -19,8 per cento nel quinquennio, con una correzione negativa del 350 per cento. Il debito pubblico ellenico, al di là delle sue inenarrabili traversie, nel 2015 è stato pari al 178% del pil: crollo del prodotto e debito insostenibile sono il risultato della cura imposta dalla Troika. L’Italia, poi, che era accreditata nel 2011 di un +7,9 per cento di crescita, la stessa percentuale prevista per la Grecia che era stata sottoposta al primo salvataggio, ha conseguito un decremento del 2,6 per cento, con una correzione negativa del 132 per cento. Il rapporto debito pubblico/pil è passato dal 116 per cento del 2011 al 133 per cento di quest’anno, con un aumento di 17 punti. La severità fiscale ha avuto effetti recessivi tali da destabilizzare, anziché consolidare, le finanze pubbliche. La Spagna, che sarebbe dovuta crescere del 9,7 per cento, ha registrato solo un +1,9 per cento con una correzione negativa dell’80 per cento. Il debito pubblico spagnolo ha risentito sia del deficit di bilancio sia dell’accollo degli oneri del collasso bancario, passando dal 69 per cento al 99 per cento del pil. Gli Usa, infine, che dovevano crescere del 16,5 per cento, hanno registrato un incremento del pil pari al +12,6 per cento, con una correzione negativa del 24 per cento, di poco superiore a quella tedesca. Il rapporto debito federale americano/pil è cresciuto di soli sette punti, passando dal 99 per cento del 2011 al 107 per cento del pil.

Dovunque è stata adottata, la severità fiscale ha fatto collassare le prospettive di crescita, mentre gli effetti recessivi delle manovre sono stati sempre ampiamente sottostimati. E’ stato conseguito un risultato opposto a quello che ci si era prefisso: i debiti pubblici non sono aumentati per i deficit sconsiderati, ma per il crollo dell’economia.
Visto il rallentamento del 2016, ci saranno richieste delle correzioni per mantenere la rotta del deficit e del debito: è il solito mantra che peggiorerà le aspettative delle famiglie e delle imprese. Prima di adottarle, o solo annunciarle, quali che siano, è meglio pensarci ben più che due volte. Anche nel 2011, per fare ancora meglio si fece molto peggio.


×

Iscriviti alla newsletter