Dopo molti tentennamenti, il consiglio dei ministri del 25 agosto, in un clima reso plumbeo dalla terribile tragedia che ha colpito il centro Italia, ha dato il via definitivo alla riforma della dirigenza pubblica, approvando il testo del decreto che andrà ora al vaglio del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari competenti. Ci sarà, dunque, occasione per un’analisi approfondita delle diverse previsioni, limitandoci in questa sede a qualche primissima impressione. Da subito, tuttavia, va rilevato come ad oggi non sia disponibile, sul sito del Governo, il testo del decreto, planato da tempo nelle redazioni dei giornali e, in maniera carbonara, nelle mani di qualche addetto ai lavori, ma indisponibile al comune cittadino che voglia, finalmente, tentare di farsi un’idea in proprio. Nell’era della sbandierata e necessaria trasparenza dell’azione pubblica, questo è inaccettabile.
Vediamo allora qualche punto saliente della riforma, partendo dall’istituzione del cosiddetto sistema della dirigenza pubblica che è costituito dai tre ruoli dei dirigenti statali, regionali e locali ai quali “si accede tramite procedure di reclutamento e requisiti omogenei, in modo da assicurare il rispetto dei principi di eguaglianza, del merito e dell’esame comparativo”. Tutto giusto e, finalmente, utile per dare un taglio con la frammentarietà con cui in questo Paese si è reclutata la dirigenza pubblica, lasciando mano libera alla creazione di feudi e possedimenti di pezzi della politica interessati a utilizzare la PA come serbatoio elettorale. Allo stesso tempo affiorano e sono bene in vista, purtroppo, non pochi scogli su cui rischiano di andare ad infrangersi le dichiarate buone intenzioni.
Il primo riguarda le Commissioni di coordinamento del sistema (una per ruolo) che devono, fra le altre cose, definire i criteri generali, ispirati a principi di pubblicità, trasparenza e merito, di conferimento degli incarichi dirigenziali, accertando l’effettiva adozione e il concreto utilizzo dei sistemi di valutazione al fine del conferimento e della revoca degli incarichi. Organi, come si capisce, assai operativi e ispirati a principi di managerialità e comprensione dei meccanismi di carattere organizzativo, oltre che amministrativo-burocratico. A tempo pieno. Ebbene, dei sette membri previsti, cinque sono altissimi funzionari (il Segretario generale del Consiglio di Stato, il presidente dell’ANAC, il Ragioniere generale dello Stato, il Segretario generale del Ministero degli esteri e il Capo Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno) che non solo fanno parte – curiosamente – di pezzi di apparato pubblico non toccato dalla riforma, ma avranno, evidentemente, ben poco tempo da dedicare a compiti così delicati. E, mi si passi l’ardire, probabilmente non troppo versati a principi di organizzazione e management.
Due. Dice il decreto che costituiscono mancato raggiungimento degli obiettivi fissati per il dirigente, pena il licenziamento, fra le altre cose, la valutazione negativa della struttura di appartenenza, riscontrabile anche da rilevazioni esterne ed il mancato rispetto delle norme sulla trasparenza, che abbiano determinato un giudizio negativo dell’utenza sull’operato della pubblica amministrazione. Si dice, in altre parole, che l’utenza esterna e, di fatto, chiunque si senta in vena di fare il leone da tastiera su Facebook perché ha passato una giornata nera nel tal ufficio (e sa solo l’Altissimo quanto spesso possa capitare), sia determinante ai fini del giudizio negativo di un dirigente. Il sacrosanto principio del controllo sociale da parte della cittadinanza, insomma, privo di necessarie regole di ingaggio, rischia di trasformarsi in una sorta di potenziale gogna mediatica perenne in cui l’autonomia dell’azione amministrativa va a farsi benedire.
Tre. Il punto più controverso: la fine del diritto all’incarico. La lotta per un posto da dirigente, pur se vincitore di concorso pubblico (roba preistorica, oggigiorno), assume connotati darwiniani e ove, per motivi che nulla hanno a che fare con valutazioni negative, un incarico non dovesse arrivare, ci si avvia verso la strada del licenziamento. Il decreto, va detto, aggiunge qualche tenue clausola di salvaguardia, ma il disegno della precarizzazione della dirigenza pubblica può dirsi concluso, con conseguenze assai pericolose per l’imparzialità dell’azione amministrativa e la tutela degli interessi dei cittadini. Censurabile, inoltre, che solo l’esito delle procedure di selezione è pubblico, mentre resta in una black box tutto l’iter della scelta e, soprattutto, la motivazione di affidamento e d’esclusione. Al danno, tuttavia, non manca il condimento della beffa: il dirigente privo di incarico, dice il decreto, “è tenuto ad assicurare la presenza in servizio, e rimane a disposizione dell’amministrazione per lo svolgimento di mansioni di livello dirigenziale”: il non-dirigente in panchina, in un angolo. A disposizione.
Resta solo da auspicare, nei prossimi mesi, un dibattito puntuale e partecipato sulle tante faglie che attraversano questa ennesima riforma, per tentare di ricondurre alcuni punti di forte criticità nell’alveo di un sistema equilibrato e, soprattutto, ben oliato. Basti pensare al fatto che i tre ruoli sembrano essere assolutamente permeabili: in pratica, senza ulteriori paletti regolatori, un posto scoperto rischierà di esser preso d’assalto da migliaia di domande, magari in forma preventiva per non rischiare di trovarsi senza sedia, col rischio di mettere in moto una giostra impazzita che sarà molto difficile gestire. O al fatto che la Scuola Nazionale dell’Amministrazione, uno dei pochi elementi di forte novità degli ultimi venti anni per quel che riguarda l’assunzione di giovani e motivati dirigenti, rischi di appaltare le procedure di reclutamento a non meglio definite “istituzioni nazionali e internazionali di riconosciuto prestigio”. A rischiare di perderci, ricordiamolo sempre, saranno i cittadini. La pancia, in questioni così delicate, si è dimostrata di ben poco aiuto: lo tengano bene a mente tutti coloro che sono sul campo di gioco prima di causare rotture irreparabili.