Il prossimo mese di settembre sarebbe dovuto venire a conclusione il Qe della Bce: deciso a gennaio 2014, e con decorrenza da marzo, prevedeva 60 miliardi di euro di acquisti di titoli pubblici, per un totale di 1.080 miliardi. Una cifra che sembrava stratosferica, in grado di cambiare radicalmente i paradigmi economici. Visti gli scarsi risultati, è stato successivamente prolungato nel tempo, reso più consistente portandolo ad 80 miliardi al mese, esteso all’acquisto di bond emessi da privati, sempre con l’obiettivo di riportare l’inflazione verso il livello del 2% annuo. Questa misura eccezionalmente accomodante si è accompagnata alla fissazione del tasso di riferimento allo 0,25% annuo ed alla penalizzazione dello 0,40% delle detenzioni bancarie ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria.
La immissione di liquidità a favore del sistema bancario, il basso costo del denaro ed il disincentivo a mantenere i fondi inoperosi presso la Bce avrebbero dovuto far crescere il credito, attraverso questo gli investimenti. Come conseguenza della mobilitazione di fattori produttivi, sarebbe arrivata l’inflazione.
Nulla di tutto questo è avvenuto, mentre l’effetto più consistente della politica monetaria è stato rappresentato dal crollo dei tassi di interesse sui titoli pubblici: gli spread sono stati piallati, ed in numerosissimi casi i rendimenti sono negativi. Se ciò giova alle finanze pubbliche, è negativo per i risparmiatori e gli investitori istituzionali come i fondi previdenziali e le assicurazioni. I primi, piuttosto che investire in perdita, ovvero con margini ritenuti troppo esigui, si tengono liquidi. Di certo, non rischiano avventure: sono nella trappola di keynesiana memoria. A loro volta, le aziende non investono perché prevedono che la domanda rimarrà bassa: il credito non aumenta.
Tutte le riforme strutturali hanno puntato al contenimento dei costi del lavoro, attraverso il capovolgimento della gerarchia delle fonti contrattuali, privilegiando il livello aziendale rispetto a quello di nazionale di settore: non ci sono più gli aumenti validi per tutti, e quindi anche questa componente dinamica della domanda aggregata è stata sterilizzata. Visti i bassi prezzi delle materie prime, la tendenza alla deflazione è ovvia, anche perchè gli aumenti di produttività non vengono ribaltati sui salari ma finalizzati al contenimento dei prezzi.
Dal punto di vista dei rapporti internazionali, sono rimasti pressochè inalterati gli squilibri delle bilance dei pagamenti, con i medesimi Paesi ancora in attivo strutturale (principalmente, Germania, Giappone e Cina) e gli altri in passivo strutturale (soprattutto gli Usa, la Gb e la Francia). I debiti pubblici sono aumentati in modo consistente pressochè ovunque, con la eccezione di Cina e Germania.
Il Giappone è rimasto chiuso nella morsa implacabile della deflazione: deve tenere bassi i salari per poter mantenere elevato l’export, ma ciò determina una domanda privata interna insuffiente cui si cerca di ovviare finanziando in disavanzo la spesa pubblica per investimenti, con mezzi monetari forniti dalla BoJ. Non appena lo yen si rafforza ed il potere di acquisto fa aumentare le importazioni, la perdita di competitività dell’export minaccia gli equilibri delle imprese. E’ lo schema su cui si è avviata la Germania: poiché quasi la metà della produzione è destinata all’export, i costi di questa sono vincolati al mantenimento della competitività sull’estero. Aumentare i salari significherebbe perdere profittabilità e quote di mercato, mettendo in crisi la stessa occupazione. I segmenti economici non esposti alla competizione internazionale, in particolare il commercio al dettaglio ed i servizi alla persona, non possono determinare una crescita autonoma, essendo piuttosto tributari dei livelli di reddito dei primi.
Considerati i vincoli posti alla dinamica della spesa pubblica finanziata in disavanzo, la crescita economica tedesca dipende prevalentemente dall’export, come quella giapponese. Solo il settore delle costruzioni avrebbe potenzialità autonome, ma viene tenuto strettamente sotto controllo. Accade così che, ancora oggi, i proventi dell’export vengano prevalentemente investiti all’estero, ricreando quelle condizioni di pericolosa dipendenza che causarono le perdite delle banche tedesche dopo la crisi del 2008, per via degli investimenti in titoli americani che avevano come sottostanti mutui sub-prime, dei prestiti alle banche spagnole e degli investimenti in Grecia: la crescita della posizione finanziaria netta della Germania verso l’estero rappresenta allo stesso tempo un fattore di forza ma di altrettanta vulnerabilità. Per evitare l’inflazione dei prezzi interni, ivi compresa quella degli asset immobiliari, si deve investire all’estero, con i rischi che ne conseguono: anche sotto questo profilo, niente è cambiato rispetto alla situazione che portò alle colossali perdite bancarie dopo la crisi del 2008.
E’ ragionevole supporre che nulla cambierà nelle politiche monetarie e fiscali europee, ancora per diversi mesi, a meno che non vi siano fattori di destabilizzazione politica o finanziaria globale: si completerà così, a settembre del 2017, il peggior decennio della nostra storia economica moderna, the worst decade.