Dopo tre settimane d’inferno, Donald Trump riesce di nuovo a mettere sulla difensiva la sua rivale Hillary Clinton: il magnate approfitta del riemergere di vecchie storie, l’”emailgate” e le donazioni alla Clinton Foundation, e di una gaffe di Hillary con Colin Powell, per venire via dalle corde e respirare un po’.
Di suo, Trump ci mette poco. Anzi, le strizzate d’occhio ai neri e agli ispanici sono piuttosto goffe. Ma pure la Casa Bianca lo aiuta, raccontando una mezza verità, che per i canoni Usa è una bugia, sul versamento all’Iran di 400 milioni di dollari legato alla liberazione di tre cittadini americani.
L’”EMAILGATE”, UNA VICENDA CHE TORNA A GALLA
L’Fbi ha scoperto quasi 15.000 email di Hillary, risalenti al periodo 2009-2013 in cui la candidata democratica era segretario di Stato: mail inviate e ricevute su un server privato e non su quello protetto e “regolamentare” del Dipartimento di Stato.
Si tratta di quasi 15.000 mail che si aggiungono alle circa 30.000 già rese disponibili da Hillary, forse parte delle circa 33.000 ritenute private dall’ex segretario di Stato e quindi fatte distruggere. La Abc, che ne dà notizia, afferma che, quale che ne sia l’origine, si tratta di documenti non ancora sottoposti a verifica.
La campagna della Clinton ha così commentato gli sviluppi della vicenda: “Come abbiamo sempre detto, Hillary Clinton ha fornito al Dipartimento di Stato, nel 2014, tutte le email relative al lavoro in suo possesso […] Non sappiamo che cosa siano i documenti ora individuati dall’Fbi, ma se il Dipartimento di Stato riterrà che alcuni siano collegati al lavoro siamo chiaramente favorevoli alla loro pubblicazione”.
Il Dipartimento di Stato, dal canto suo, non ha detto se e quando saranno pubblicate le nuove mail. L’indagine finora compiuta dall’Fbi s’è conclusa con un non luogo a procedere nei confronti della Clinton, sottoposta a giugno a un lungo interrogatorio.
L'”emailgate”, com’è stato battezzato dalla stampa Usa, è uno dei pochi temi concreti su cui Trump può attaccare la rivale, sollevando dubbi sulla sua affidabilità: l’accusa è di avere esposto a fughe materiale potenzialmente sensibile per la sicurezza nazionale.
Un giudice federale di Washington D.C. ha frattanto disposto che l’ex segretario di Stato risponda per iscritto a domande sull'”emailgate” che un’organizzazione conservatrice ha chiesto di poterle porre. Il giudice Emmet Sullivan non ha però disposto che la Clinton deponga di nuovo sotto giuramento come chiedeva Lawyers for Judicial Watch, appellandosi al Freedom of Information Act. Il giudice ha fissato al 14 ottobre la scadenza per la presentazione delle domande ed ha dato alla Clinton 30 giorni per rispondere. Il che ci porta oltre l’Election Day, l’8 Novembre.
Alcune domande riguarderebbero richieste di accesso gestite da una stretta collaboratrice di Hillary, Huma Abedin, che le avrebbe tutte correttamente indirizzate ai canali ufficiali.
BOTTA E RISPOSTA CON POWELL
Fra le tante autoreti di Trump, eccone una della Clinton, legata proprio all’”emailgate”. L’ex segretario di Stato Colin Powel nega di averle mai consigliato, quando lei guidava la diplomazia Usa, di usare un account privato per la corrispondenza elettronica. “La sua gente (cioè lo staff della Clinton, ndr) sta cercando di addossarmi la colpa”, dice Powell: “La verità è che stava usando il server privato per le sue mail da almeno un anno prima che le inviassi un memo su come mi ero regolato io”, riferiscono People e il New York Post.
A tirare in ballo Powell, sarebbe stata proprio la Clinton, rispondendo alle domande dell’Fbi, almeno secondo la ricostruzione del NewYork Times. Il quotidiano sostiene che questo dettaglio è nel dossier consegnato la scorsa settimana dall’Fbi al Congresso. Il giornale cita, inoltre, un libro che sta per uscire di Joe Carson (“Man of the World: The Further Endeavors of Bill Clinton”): si racconta come nel 2009, a una cena data da un altro ex segretario di Stato, Madeleine Albright, Powell suggerì a Hillary di ricorrere a un account di posta personale per tutte le comunicazioni tranne che per quelle “classificate”.
Powell, un nero, il primo a ricoprire numerosi incarichi militari e politici, repubblicano anomalo, nel 2008 e nel 2012 sostenne Barack Obama e non ha ancora espresso il suo endorsement 2016. Difficile lo faccia a favore di Trump, ma difficile pure che s’esprima per una candidata che tenta d’usarlo come capo espiatorio.
TRUMP CHIEDE AI CLINTON DI CHIUDERE LA LORO FONDAZIONE
Dimentico dei propositi di moderazione, espressi comunque contro voglia, Trump ha duramente attaccato la rivale, tacciandola di cupidigia e corruzione, e ha ingiunto a lei e al marito, l’ex presidente Bill, di chiudere la Fondazione che porta il loro nome e che dal 1997 a oggi ha raccolto circa due miliardi di dollari.
“I Clinton”, afferma in un comunicato il candidato repubblicano alla Casa Bianca, “hanno trascorso decenni a riempirsi le tasche, occupandosi dei loro donatori anziché dei cittadini americani. Ormai è chiaro che la Clinton Foundation è l’ente più corrotto nella storia della politica. Va chiusa immediatamente”.
E quindi, intervistato dalla Fox, il magnate ha intimato all’organizzazione benefica dell’ex first lady di restituire “tutte le donazioni” avute da Paesi responsabili di “discriminazioni ai danni delle donne, dei gay e di tante altre” categorie svantaggiate: palese l’allusione all’Arabia Saudita, molto generosa nei confronti della Fondazione, specie costei Hillary guidava il dipartimento di Stato.
La settimana scorsa, Bill Clinton aveva annunciato che, se Hillary sarà presidente, la Fondazione non accetterà più denaro dall’estero né da compagnie private, e lui stesso ne lascerà il Consiglio d’Amministrazione. Robby Mook, stratega della campagna di Hillary, ha dal canto suo ricordato che la Fondazione fornisce cure contro l’Aids a oltre dieci milioni di persone, e che è riuscita a fare scendere del 90 per cento il costo dei farmaci anti-malarici.
Una “granetta” supplementare legata alla Clinton Foundation era venuta da un’inchiesta della Cnn, che aveva rivelato che una delle principali collaboratrici della candidata democratica, Cheryl Mills, capo di gabinetto della Clinton a Foggy Bottom, si recò da Washington a New York nel giugno 2012 per un colloquio per un posto presso la Fondazione.
La Mills replica che, mentre era al Dipartimento di Stato, il suo lavoro per la Clinton Foundation fu totalmente volontario. “Cheryl – precisa la campagna di Hillary – ha volontariamente dedicato suo tempo libero a un ente di beneficienza, come ha fatto con altri […] Ha pagato di tasca sua il viaggio a New York, ed é stata chiarissima con tutti i soggetti coinvolti che ciò non aveva nulla a che fare con i suoi doveri d’ufficio […] L’idea che questo ponga un conflitto di interessi è assurda”.
Trump, del resto, se ne fa un baffo delle inchieste già svolte: se diventerà presidente, intende nominare un procuratore speciale per indagare sulla Clinton Foundation. E critica il Dipartimento della Giustizia per aver “agito in modo non etico” nelle indagini sull’”emailgate”.
Il Dipartimento e l’Fbi, a suo avviso, non meritano “fiducia” nell’indagare sulla Fondazione dopo non avere incriminato la Clinton nell’”emailgate”: “Sono sempre più sconcertato dalla portata della criminalità di Hillary”, afferma il magnate, sostenendo che da segretario di Stato “ha supervisionato pratiche corruttive”.