Giuseppe Paccione
L’ISIS – Islamic State of Iraq and Syria – è un’organizzazione molto particolare, nel senso che delinea se stesso come un vero e proprio Stato e non un agglomerato di persone. Utilizza metodi talmente violenti, che persino Al Qaeda, ultimamente, ha preso le distanze. Ha il controllo tra l’Iraq e la Siria di un territorio abbastanza esteso e lo amministra in totale indipendenza, ricavando, dalle sue brutali attività, danaro che gli serve per sopravvivere. Ha come obiettivo quello di scatenare una guerra totale e interna all’Islam e all’Occidente, e sta istituendo un califfato.
Per comprendere la storia dell’ISIS è d’uopo iniziare da tre personaggi abbastanza conosciuti: il primo, noto in tutto il pianeta per gli attacchi terroristici alle Torri gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001, è Osama Bin Laden, uomo di origine saudita che per lungo tempo è stato a capo di Al Qaida, ancor prima, durante la guerra afghana, agli inizi degli anni ottanta, del secolo scorso, a servizio della CIA; il secondo è un medico egiziano, Ayman al-Zawahiri, che ha preso il posto di Bin Laden colpito a morte in un raid americano ad Abbottabad, in Pakistan, il 2 maggio 2011; il terzo è Abu Musab al-Zarqawi, un giordano che dagli anni Ottanta e poi Novanta – cioè fin dai tempi della guerra che molti afghani combatterono contro i sovietici che avevano occupato il territorio dell’Afghanistan – era stato uno dei rivali di Bin Laden all’interno del movimento dei mujaheddin, e poi anche di Al Qaida.
Nel 2000 Zarqawi decise di fondare un proprio gruppo con fini non analoghi a quelli di Al Qaida, che era sorta sull’idea di sviluppare una specie di esercito straniero sunnita, che avrebbe dovuto difendere i territori abitati dai musulmani dall’occupazione occidentale. Invece, Zarqawi voleva cagionare una guerra civile su larga scala e per farlo voleva approfittare e rendere sviluppato la complicata situazione religiosa dell’Iraq, nazione a maggioranza sciita ma con una minoranza sunnita al potere da molti anni assieme a Saddam Hussein.
Lo scopo di Zarqawi era quello di costituire un califfato islamico totalmente sunnita. Questo punto è prettamente fondamentale perché pone in chiaro la strategia dell’ISIS e ne statuisce le sue alleanze in Iraq. In parole povere, il suo punto centrale consiste nel portare avanti una campagna di sabotaggi continui e costanti a siti turistici e centri economici di Paesi musulmani, per creare una rete di vere e proprie regioni della violenza, dove le forze dello Stato si ritirassero, sfinite dagli attacchi e in cui la popolazione locale si sottomettesse alle forze islamiste occupanti.
Nel 2003, solo cinque mesi dopo l’invasione statunitense in Iraq (errore grave che fecero gli Stati Uniti con a capo il presidente Bush junior nel colpire Saddam Hussein che per anni è stato la saldatura dell’intero Iraq), il gruppo di Zarqawi fece esplodere un’autobomba in una moschea di Najaf durante la preghiera del venerdì: rimasero uccisi un centinaio di musulmani sciiti, tra cui l’ayatollah Muhammad Bakr al-Hakim, che avrebbe potuto garantire una leadership moderata all’intero Iraq.
Negli anni, gli attentati andarono avanti e nel 2004 Zarqawi sancì la sua alleanza con Al Qaida, denominando il suo gruppo Al Qaida in Iraq (AQI). Malgrado i punti di vista diversi, l’affiliazione favoriva grandi piaceri a entrambe le parti, come quello di permettere a Bin Laden di avere una forte presenza in Iraq, Stato, in illo tempore, occupato dalle forze militari statunitensi e non solo. Nel frattempo, nel 2006, Zarqawi veniva colpito a morte da una bomba delle forze alleate, e venne sostituito da Abu Omar al-Baghdadi (fu ucciso poi nel 2010, e il suo posto fu a sua volta preso da Abu Bakr al-Baghdadi).
Il gruppo di Al-Baghdadi ebbe una frenata nel 2007 a seguito del parziale successo della strategia di contro insurrezione attuata in Iraq dal generale statunitense Petraeus, il quale prevedeva una maggiore vicinanza e solidarietà delle truppe con la popolazione e che contribuì a ridurre le violenze settarie e il ruolo di Al Qaida per almeno due anni. La strategia del generale statunitense si fondava su una collaborazione con le tribù sunnite locali, che mal sopportavano l’estremismo di Al Qaida; purtroppo questa strategia oggi pare non più attuabile, per colpa delle politiche violente e settarie che il primo ministro sciita Nuri al-Maliki, ora dimessosi, ha posto in atto contro i sunniti, compromettendo per il momento qualsiasi possibilità di collaborazione.
Nel 2011 il gruppo ricominciò a rafforzarsi, riuscendo inter alia a liberare un certo numero di prigionieri detenuti dal governo iracheno. Nel 2013, AQI mutò il nome in Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), dopo che la guerra in Siria gli offrì nuove occasioni di espansione persino in territorio dello Stato siriano. Il fatto di includere l’area del Levante nel nome del gruppo (cioè l’area del Mediterraneo orientale: Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro) era l’indicazione di un allargamento delle ambizioni dell’ISIS, ma non ne spiegava completamente gli scopi ultimi. Infatti, l’ISIS non ha agito singolarmente, ma si è alleato con le tribù sunnite e con gruppi baathisti dell’Iraq. Tali alleanze non possono stare insieme a lungo, a meno che non si mantenga un clima di contrapposizione totale. In Iraq questo clima è alimentato, inter alias, anche da una delle caratteristiche distintive dell’offensiva dell’ISIS: la brutalità dei suoi attacchi.
La guerra dell’ISIS pare essere una guerra totale – come dimostra il massacro di soldati sciiti a Tikrit, la città natale di Saddam Hussein. Infatti, il modus operandi dell’ISIS è di una bestialità unica, nel senso che sia Bin Laden, che Zawahiri avevano senz’altro una certa familiarità con l’uso della violenza nei confronti dei civili, ma quello che non riuscirono a comprendere fu che, per Zarqawi e la sua rete, la brutalità era il punto cruciale dell’azione.
L’idea di questo movimento era l’istituzione di un califfato che avrebbe portato alla purificazione del mondo musulmano, obiettivo che stanno cercando di raggiungere. La brutalità dell’ISIS era già stata notata da Al Qaida durante il conflitto in Siria: dalla fine del 2013 il capo di al Qaida, Zawahiri, cominciò a chiedere all’ISIS di restare fuori dalla guerra. Al-Baghdadi però respinse tale invito e nel febbraio del 2014 Zawahiri espulse l’ISIS da Al Qaida. In sostanza, l’ISIS ha manifestato di essere un gruppo molto violento anche per al Qaida, maggiormente perché prendeva di mira non solo le truppe di Assad ma anche altri gruppi dello schieramento dei ribelli sunniti.
Sino al 2013, l’ISIS, rafforzato dalle vittorie militari in Siria, tornò in Iraq e conquistò le città irachene di Falluja e Ramadi. Rispetto ad altri gruppi islamisti che lottano in Siria, l’ISIS non dipende per la sua sopravvivenza da aiuti di Stati stranieri, perché nel territorio che controlla de facto ha istituito un mini-stato quanto la regione Abruzzo; ha organizzato una raccolta di fondi; ha avviato la vendita di energia elettrica al governo di Damasco, a cui aveva precedentemente conquistato le centrali elettriche; e, infine, ha costituito un sistema per esportare il petrolio della Siria conquistato durante le offensive militari. I soldi raccolti li utilizzano per pagare gli stipendi ai suoi miliziani; questo gli consente di beneficiare di una migliore coesione interna rispetto a qualsiasi suo nemico statale o non statale che sia.
L’ISIS, praticamente, è riuscito sino ad oggi a massimizzare ciò che gli ha offerto il conflitto siriano. La stessa cosa potrebbe, però, non accadere nuovamente nello Stato iracheno, per due considerazioni importanti. In primo luogo, l’ISIS potrebbe in qualche modo subire un default sul piano economico, perché le sue entrate potrebbero non bastare a sostenere la rapida espansione territoriale. Una possibilità è che l’ISIS possa riuscire a sfruttare il petrolio dello Stato iracheno, come già avviene in Siria nelle aree sotto il suo controllo. In Iraq, le zone che potrebbe plausibilmente conquistare non hanno giacimenti estensivi di petrolio, e le infrastrutture necessarie per il suo sfruttamento sono carenti rispetto a quelle siriane. In secondo luogo, l’aggravarsi della crisi irachena ha posto in guardia il governo iraniano che sta organizzando le proprie forze militari per un eventuale intervento.
L’Iran ha già inviato in Iraq le forze Quds, il suo più temibile corpo d’élite che fa parte della Guardia Rivoluzionarie (forza militare istituita dopo la rivoluzione del 1979), specializzato in missioni all’estero. Le forze Quds sono forse il corpo militare più efficiente dell’intero Medioriente, molto diverse dal disorganizzato esercito iracheno che è fuggito da Mosul per non affrontare l’avanzata dell’ISIS. Con l’intervento dell’Iran e di altre milizie sciite che fanno riferimento a potenti leader religiosi sciiti locali, pare arduo credere che l’ISIS possa avanzare verso Baghdad, capitale dell’Iraq – che tra l’altro è una città a grandissima maggioranza sciita –, mentre è più plausibile che provi a rafforzare il controllo sulle parti di territorio iracheno a prevalenza sunnita che è già riuscito a conquistare. L’Europa faccia bene a non abbassare la guardia dinanzi a questo orrendo fenomeno dell’avanzata dell’ISIS.