Il tormentone: i NEET. Alcuni li confonde con i Nerd. Ma per gli altri sono una vera ossessione, conosciuti dal 2010 con questo acronimo coloro che nè studiano nè lavorano. Tre classificazioni di giovani e – questa volta è il turno dei ragazzi tra i 20 e i 24 anni. Perché sapere che il proprio figlio – o tutta la propria generazione – fa parte di questo club, sembra un dato diverso rispetto alla solitudine degli ultimi della classe. Un club? più che esclusivo sembra escludere dai propri doveri e poi anche dai propri desideri, per il futuro del Paese. Ma tra i Neet ci sono solo i ragazzi che sedevono all’ultimo banco? No. All’abbandono scolastico, alla crisi, al lavoro in nero, il dato restituisce sempre qualcosa in più che sommando gli insuccessi prima individuali e poi collettivi crea l’allarme. Scrivevo questo che riporto di seguito, alla 91esima pagina del mio saggio 2010 (vi invito a rileggere con una domanda, e che fine hanno fatto quei Neet di inizio decennio?
Le domande più frequenti: “Se non sei nullafacente ma non lavori potresti spiegarci meglio cosa fai esattamente?”. Giovani catalogati sotto l’etichetta “ni estudia ni trabaja” ma bisogna avere il coraggio di “farci i conti”: un milione e 900 persone tra i 25 e i 35 anni. A pochi giorni dal battesimo massmediatico della Generazione né né. Ma “né lavorare né studiare” vuol dire chiamarsi fuori dalla società? Il Rapporto Giovani 2008 elaborato per conto del Ministero della gioventù dà la percentuale. Il 75%. Significa che a quasi uno su quattro giovani la società rinuncia. Un milione e 900 più 270 mila ragazzi tra i 15 e i 19 anni, soggetti che potremmo rendere attivi nel sistema. A volte salvandoli dal “nero”. In tutti i sensi. È stato calcolato che se avessimo tassi occupazionali pari a quelli dei Paesi capolista nella classifica Ue nella fascia d’età tra i 15 e i 39 anni, il nostro Pil guadagnerebbe fino a 2 punti in percentuale. Invece? La crisi che paghiamo è anche perché non si pensano queste forze vitali a pilastro, bensì in una mentalità parassitaria si leggono i fenomeni generazionali in una chiave di disagio. Una profezia che si auto avvera. Infatti un “sistema di vita” non scandito, automaticamente porta alla percentuale pari a 54% dei giovani tra i 18 e i 34 anni che dichiara di “non avere un progetto su cui riversare il proprio interesse o le proprie illusioni”. La gestione del tempo libero assume un peso rilevante per comprendere il fenomeno che a questo punto ha dimensioni esasperate perché il loisir si immagina come intervallo tra una attività e l’altra ma quando rappresenta l’unico “stile di vita” e “il lavoro non lo cerco tanto non lo trovo”: è un invito insano a rinunciare alle lotte della vita, in fondo al gusto pieno. “Soddisfatti della loro vita privata” invece l’80% dei giovani…ma privata del lavoro? Dei doveri? Delle responsabilità che in prima persona dovrebbero avere? di dare le risposte giuste per uscire dalla crisi? Troppo impegnati a vivere i locali, per entrare nelle questioni “nazionali”? Le energie sottratte fin qui all’economia. Non è tanto un diritto (a un lavoro, diritto allo studio) quanto una urgenza di noi tutti.