Il 31 luglio del 1912 nasceva Milton Friedman, uno dei maggiori economisti del Novecento, insignito nel 1976 del Premio Nobel per l’economia. Innumerevoli gli ambiti nei quali l’economista statunitense si è distinto: dagli studi sull’economia monetaria alle analisi sul capitalismo e il ruolo dei governi, passando per l’impresa e il rapporto di questa con l’etica. Volendolo ricordare a centoquattordici anni dalla nascita, intendo evidenziare proprio quest’ultimo aspetto del suo contributo alla scienza economica.
A segnare in modo indelebile il dibattito su etica ed economia, rinviando ed investendo un largo spettro di concezioni sulla politica ed in generale sulla dimensione civile del vivere comune è stato il saggio di Friedman Il monopolio e la responsabilità sociale degli imprenditori e dei lavoratori. In questo saggio, ed in altri che gli fecero seguito, il premio Nobel per l’economia sostiene una tesi tanto semplice quanto, a parere di alcuni, semplicistica ed eccessivamente sbrigativa. Scrive Friedman: «… l’imprenditore ha una sola responsabilità sociale: quella di usare le risorse a sua disposizione e di impegnarsi in attività dirette ad accrescere i profitti sempre con l’ovvio presupposto del rispetto delle regole del gioco, vale a dire dell’obbligo di impegnarsi in una aperta e libera competizione, senza inganno e senza frode. Parimenti, la responsabilità sociale dei dirigenti dei sindacati è semplicemente quella di servire gli interessi dei loro associati». La secca dichiarazione di Friedman voleva essere una risposta ad una tendenza che si andava via via consolidando, in forza della quale in capo ai dirigenti delle aziende e dei sindacati vi sarebbe una responsabilità sociale che andrebbe ben oltre la “mera responsabilità e abilità funzionale”, tese al raggiungimento degli obiettivi dichiarati e agli interessi espressi dagli azionisti: a cominciare dalle grandi imprese, ci si presenta sul mercato dichiarandosi ispirati da determinate missions, si esibiscono codici etici, elaborati da propri comitati etici, si preparano bilanci sociali, ispirati da concetti quali “sviluppo sostenibile”, si riconoscono gli interessi degli stakeholders e, per finire, non possono mancare i “bollini blu” delle certificazioni etiche. In definitiva, per tornare al nostro Friedman, nelle sua parole riecheggia l’interrogativo di Berle e Means degli Anni Trenta: «abbiamo motivo di ritenere che i detentori del controllo di una moderna società per azioni la amministreranno nell’interesse dei proprietari?»
All’origine di una tale tendenza, secondo Friedman, ci sarebbe un generale fraintendimento del carattere e della natura dell’economia libera. Compito degli imprenditori e del management, in una realtà sociale nella quale sono presenti le istituzioni classiche di un’economia libera, è di «stabilire una cornice legale tale che un individuo, nel perseguimento del proprio interesse, sia, come scrive appunto Adam Smith, “guidato da una mano invisibile al perseguimento di un fine che non rientra specificamente nelle sue intenzioni coscienti. Del resto, questa intenzionalità non è sempre un male per la società. Perseguendo il suo proprio interesse, il singolo spesso promuove quello della società in forma più efficace di quando egli effettivamente si propone di promuoverlo”. Non risulta che abbiamo reso molti benefici alla società quanti hanno dichiarato di dedicarsi all’attività economica per il pubblico bene».
Il semplice fatto che un dirigente d’impresa accetti una responsabilità più ampia della mera responsabilità di guadagnare la maggior quantità di denaro possibile per gli azionisti, per Friedman, rappresenta uno scardinamento dei fondamenti stessi della società libera. In definitiva, si tratta di una teoria “sovversiva”. Le ragioni di Friedman emergono da una serie di domande che egli pone al lettore. In primo luogo, si domanda l’economista, come possono gli imprenditori e i dirigenti cogliere concretamente in che cosa consista la loro ulteriore responsabilità nei confronti della società se non massimizzano la loro prima e fondamentale responsabilità, ossia ottemperare al mandato fiduciario ricevuto dagli azionisti? In secondo luogo, si chiede Friedman, come possono uomini qualunque, persone dotate di intelligenza media o anche superiore alla media “autoproclamarsi competenti” in materia di ciò che è bene e ciò che è male per l’interesse generale? In base a quale criterio, date le premesse, potrebbero stabilire la giusta misura della sanzione da applicare a se stessi e agli azionisti in vista dell’interesse sociale? Ed infine, è ammissibile che si avochi ad un gruppo più o meno ristretto di manager privati il compito di individuare le funzioni pubbliche dell’imposizione fiscale? Un ristretto gruppo di persone designate dagli azionisti di aziende private alle quali viene chiesto di svolgere un compito che sarebbe tipico di un funzionario pubblico. E allora, si domanda Friedman, non è lecito temere che presto o tardi, in nome di un più consolidato e progressivo sistema democratico, anche i dirigenti delle imprese private diventino funzionari di nomina pubblica?
In base a tali premesse, fortemente debitrici dei suoi principi metodologici di “economia positiva”, Friedman contesta la posizione di coloro che, in nome di una vaga e retorica nozione di responsabilità sociale, sostengono il dovere degli imprenditori di finanziare attività caritatevoli ed enti nonprofit, dal momento che la destinazione da parte delle imprese di somme di danaro che appartengono agli azionisti rappresenta un uso distorto delle risorse della stessa impresa. L’azienda non appartiene ad altri che non siano gli azionisti, qualora l’impresa concedesse sovvenzioni o comunque finanziasse attività non finalizzate alla produzione di profitto imprenditoriale, priverebbe il singolo azionista di decidere liberamente dell’impiego delle proprie risorse. Il che si tradurrebbe in una contrazione dei margini di libertà individuale. Ciò non esclude che l’interesse degli azionisti intercetti la decisione dei dirigenti di effettuare un donativo, scrive Friedman: «Con la tassa sulla società e con la detraibilità delle somme destinate a sovvenzioni, gli azionisti possono naturalmente desiderare che la loro società faccia un donativo per loro conto, dal momento che, in questo modo, il donativo può risultare di entità maggiore». Per questa ragione, Friedman propone l’abolizione dell’imposta sulle società, venendo meno di conseguenza la possibilità per la stessa società di detrarre dall’imponibile i contributi destinati ad istituzioni caritatevoli e nonprofit. Simile possibilità dovrebbe essere data esclusivamente ai singoli, i quali liberamente decidono come impiegare le loro risorse economiche.
In definitiva, per Friedman, coloro che si battono per una maggiore detraibilità delle donazioni societarie non fanno altro che andare contro i loro interessi. Credono di operare a favore di una maggiore libertà d’intrapresa ed invece, contribuendo a scavare il solco che divide la proprietà dal controllo dell’impresa, favorendo il comportamento irresponsabile di dirigenti che non rispondono agli interessi degli azionisti, non fanno altro che allontanarsi dalla società libera e porre le basi dello stato corporativo.