Spesso e volentieri coloro i quali nel dibattito su terrorismo e Islam sostengono la tesi che quella in corso non è una guerra di religione, ma che usa la religione per fini politico-economici, portano l’esempio dell’incontro tra S.Francesco e il sultano d’Egitto Al Kamil come simbolo del dialogo quale giusto atteggiamento da adottare (ultimo in ordine di tempo, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Giorgio Vittadini mercoledì scorso in un’intervista al Corriere). Dimenticando però (o facendo finta di dimenticare) un paio di particolari che risultano invece essere decisivi per evitare strumentalizzazioni e fraintendimenti: 1) Francesco non parlò col sultano Al Kamil così, tanto per farci due chiacchiere e confrontarsi sulle reciproche fedi, ma per annunciargli il Vangelo nella speranza di convertirlo a Cristo (lui e tutti i saraceni che incontro’ sul suo cammino), come
testimoniano tutte le fonti e gli studiosi più autorevoli, e come è d’obbligo per ogni cristiano; 2) S. Francesco si recò dal sultano Al Kamil uscendo dall’accampamento dei crociati (read my lips: cro-cia-ti), ai quali si era unito nel 1219 come tantissimi altri pellegrini dell’epoca, desiderosi unicamente di liberare i luoghi santi del cristianesimo, in primis il Santo Sepolcro, occupati dai musulmani (e questo con buona pace della vulgata che continua a spacciare le crociate come guerre di religione/conquista nonostante, di nuovo, innumerevoli studi abbiano smentito tale visione a dir poco
leggendaria). Come si vede un atteggiamento, quello del santo di Assisi, lontano anni luce tanto da certa iconografia pacifista (ma anche, a seconda delle convenienze, ambientalista animalista
ecumenista eccetera eccetera) quanto da una miope cultura del dialogo che, anche in ambito cattolico, continua a guardare al dito per non vedere la luna. Il dialogo lasciamolo ai salotti, in guerra serve
altro.
A proposito dell'”incontro” tra S. Francesco e il sultano
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