Il Burkini è una forma di oppressione e assoggettamento della donna? Si tratta di un ostentamento dell’appartenenza religiosa come dichiarato dal comune di Cannes che lo ha proibito in spiaggia? E se anche fosse, è lecito vietare a chi lo desidera di indossarlo?
Secondo Lorella Zanardo, sì. E forse anche secondo tante altre e tanti altri. Per motivi ovviamente differenti. Matteo Salvini sarà contro per portare avanti la sua battaglia xenofoba, per le femministe invece perché è la rappresentazione dell’oppressione della donna.
In entrambi i casi mi dico in disaccordo: per il caso politico non serve dirlo, la strumentalizzazione di ogni cosa per una propaganda becera e populista non mi interessa. Per il caso “culturale” c’è da fare attenzione: non mi piace l’approccio per cui solo le donne occidentali sanno cosa è meglio per le donne di tutto il resto del mondo. Questa morbosa volontà di imporre e di pontificare è una modalità dell’etnocentrismo e di imposizione del modello liberale occidentale assai noto. Lo si è visto e lo si vede con la voglia di imporre la pace e la democrazia con la guerra e lo si vede a livello culturale con la voglia di imporre il nostro modo di vivere a tutte e a tutti gli altri. Pensando che qualsiasi cosa differisca dal nostro modo di fare e vedere il mondo, sia intrinsecamente sbagliata e dannosa. Ma chi lo ha detto? Siamo portatori misericordiosi del modo giusto e buono di vivere. Una sorta di fondamentalismo civile. Se così si può dire.
La questione non è certo delle più semplici ed è delicata. C’è dietro però una retorica, come spiegato bene dalla politologa statunitense Wendy Brown, che mira a produrre e riprodurre questo modello occidentale, attraverso un discorso prima di tolleranza e poi di intolleranza.
La donna che indossa un abito in spiaggia, chiediamoci, è oppressa? Se lo è una donna che indossa il Burkini lo è anche una suora che indossa il suo abito? Sono entrambe forme di oppressione della donna? Non si capisce allora perché non vietare anche alle suore in abito di andare in spiaggia. Dopotutto, ostentano anche loro un’appartenenza religiosa. Siamo decisamente nella dimensione dell’intolleranza fine a se stessa.
Chiariamo bene un punto: la tolleranza implica sempre l’intolleranza. Una discussione che va avanti da secoli e su cui si sono espressi in molti e autorevoli pensatori e filosofi, da Locke a Voltaire, da Popper a Marcuse, passando per Habermas. Essere tolleranti non significa automaticamente né accettare né rispettare quel che si sta tollerando. Ma, come scrisse Voltaire, perdoniamoci le reciproche follie.
Ci son tante cose che mi danno fastidio per esempio: la gente che fuma e quella che lascia le cartacce sotto la sabbia. La gente che ascolta la musica ad alto volume e che gioca a palla facendo sollevare la sabbia, la gente che corre di fianco e ti schizza quando esce dall’acqua. Ci sono anche scene che mi producono un po’ di ribrezzo, come il vedere corpi afflosciati e cadenti, sotto il peso dell’età, obbligati in costumini attillati mentre tutto il resto straborda e cade penzolante qua e là. A volte si potrebbe suggerire a qualcuno di coprirsi. Lo si sente nei commenti in spiaggia: ma dove va quella/quello “conciato” così? Perché non si copre con un pareo. Ecc… Si tratta dell’intolleranza. Ma la maggior parte di noi tace, si volta dall’altra parte, o finge di non vedere. O semplicemente ignora. Essere tolleranti in questo caso rende il nostro vivere più tranquillo e il mondo un posto migliore, come ha scritto la già citata Wendy Brown nel suo libro “Regulating Aversion”.
Si tratta del vivere insieme: ci poniamo delle barriere, c’è quel che può e quel che non può essere tollerato. Il Burkini rientra in quel che può essere tollerato. Tutt’al più non lo si vuole tollerare. E allora entriamo in un’altra dimensione, quella del pregiudizio e del rigetto. Sì, perché il Burkini di per sé non produce niente di dannoso né a chi lo indossa né a chi lo vede. Non offende. Ma se si vuol dire che offende perché è un’ostentazione religiosa, allora dovrebbe valere anche per un eventuale buddista in spiaggia, una suora o un qualsiasi altro caso. E allora va esplicitato ed esteso a tutti gli altri. Altrimenti è un prendere di mira un gruppo specifico.
Le libertà individuali devono essere garantite in uno Stato di diritto. In spiaggia, che non è un ufficio pubblico, le persone devono poter essere libere di andare vestite come vogliono: in bikini, con il pareo, con il burkini o anche con un sacco di patate. Questo attiene alle scelte individuali e vietare il Burkini che copre molto di meno di un abito da suora, è espressione di un pregiudizio assai esplicito. Si tratta di un gioco pericoloso che aumenta la distanza tra gruppi interni alla società, crea tensioni e sopratutto giustifica atti di intolleranza manifesta verso un gruppo preciso di persone. In ragione della loro appartenenza religiosa. O al vivere secondo la loro cultura. Inoltre, non viene affatto capito che per molte donne musulmane, praticanti, questo abbigliamento è un modo per accedere alla vita sociale. Per noi è un segno di oppressione? Possibile. Lo è davvero? Non saprei: se la donna molto praticante lo indoss a liberamente perché dovrei sconvolgermi? Si tratta di una scelta comunque vincolata dal sistema valoriale di riferimento? Molto probabile. Ma imponendole di non indossarlo cosa ottengo? Che quell’unvierso valoriale ne esce compromesso o indebolito? Ne esce forse delegittimato? Non credo: il risultato è semmai che togliamo a quelle donne la possibilità di incontrare la differenza. Di conoscere altre dimensioni del vivere.
Magari alcune vorranno vivere poi diversamente, altre sceglieranno di rimanere fedeli alla loro tradizione. Mi sembra sia questo ad offenderci: come è possibile che non vogliano vivere come noi? O son folli o son costrette. Questa è la logica. L’emancipazione femminile non si impone, così come non si impongono la pace o la democrazia. E poi, tema assai più complesso e che non voglio/posso fare qua, che tipo di emancipazione femminile? Quella tipica delle nostre democrazie europee occideentali? Il Burkini non è, nel nostro sistema di valori, usi e costumi, un passo in avanti rispetto al Burka o alla segregazione?
Sento già qualche contro-attacco: non possiamo abbandonare i nostri valori e i nostri modi di vivere. Giusto e vero. Non dobbiamo. Infatti, non è questo il caso. La situazione sarebbe decisamente diversa se chi viene vestito in spiaggia, Burkini o no, volesse imporre a tutte le altre o tutti gli altri di fare altrettanto. Allora si tratterebbe di una violazione dei diritti individuali e una cosa contraria al nostro modo di vivere. Ma se una persona liberamente ha scelto di andare in spiaggia con un Burkini, deve poter essere libera di farlo. C’è gente che si copre perché si vergona del proprio corpo in spiaggia, altri si coprono per ragioni religiose o culturali. Allora andrebbe fatta una regola generale e valida per tutti che dice: in tutte le spiagge si va solo con un costume da bagno che rispetti i canoni occidentali. Lo accetteremmo tutti?
Credo che l’emancipazione femminile passi attraverso ben altre strade. L’imposizione top-down di modelli occidentali a donne non occidentali non vedo come possa aiutarle a liberarsi. E poi liberarsi da cosa o da chi?
Non vedo come dovrebbe, inoltre, spingere gli uomini a comportarsi diversamente. Perché sovente si dimentica che le parti in causa son due: uomini e donne. Lo abbiamo visto troppo spesso, in tante cronache nere, questa oppressione della donna trascende la dimensione del religioso. Si tratta di quello che negli studi di genere e in antropologia così come in sociologia, è ben noto come un rapporto di potere, che vede in causa le categorie: donna/uomo; femminile/maschile.
Criminalizzare o censurare abbigliamenti, modi di vivere, perché diversi dal nostro e compiere una generalizzazione su una intera comunità o gruppo etnico/religioso è pericolo e controproducente. E sopratutto, non aiuta minimamente nella realizzazione di un percorso di emenacipazione così come lo concepiamo noi.