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Perché non ci convince la riforma Renzi-Boschi della Costituzione

Lo scorso 12 aprile la Camera ha definitivamente approvato il ddl RenziBoschi sulle riforme costituzionali e prossimamente, verosimilmente nella seconda metà del mese di novembre di quest’anno, i cittadini saranno chiamati al voto, sul provvedimento nel suo complesso, mediante referendum confermativo.

Visto che il dibattito sul provvedimento e sul referendum pare in un momento di stanca, con largo uso di argomentazioni pregiudiziali a sostegno del consenso o del dissenso rispetto alla riforma in questione, vediamo di approfondire merito e metodo del provvedimento in esame.

Il dichiarato intento di superare il ”bicameralismo perfetto” è stato interpretato in modo incompleto, o comunque incoerente: atteso che la Camera diventa l’unico organo eletto dai cittadini a suffragio universale diretto che dovrà approvare le leggi ordinarie e di bilancio, nonché accordare la fiducia al governo, era logico attendersi almeno che il futuro Senato (appunto ”Senato delle Regioni”) fosse dotato dei poteri necessari per svolgere un ruolo effettivo e concreto di confronto costruttivo e cooperativo tra la rappresentanza nazionale e le diverse rappresentanze regionali e locali.

Ed invece si è configurato un Senato svuotato di poteri reali anche nell’approvazione delle leggi di proprio peculiare interesse (ad esempio sul coordinamento Stato-Regioni), oltre che sul piano della responsabilità in materia finanziaria e fiscale.

Inoltre nel Senato non siederanno le Regioni in quanto tali, ma 74 Consiglieri regionali e 21 Sindaci, sostanzialmente nominati a svolgere il loro secondo ruolo e funzione (infatti le modalità di “elezione” di tali consiglieri-senatori vengono rinviate a leggi ordinarie al di là da venire), nonché 5 Senatori nominati dal Presidente della Repubblica, che rimarranno in carica per sette anni, mentre gli altri 95 Senatori rimarrebbero in carica solo per la durata del loro mandato di amministratori locali (sarà pertanto un organismo con componenti instabili, diciamo “a geometria variabile”).

L’evidente squilibrio tra senatori (100) e deputati (630) non viene in qualche modo attenuato quando, in seduta congiunta, il Parlamento sarà chiamato ad eleggere organi di garanzia quali il Presidente della Repubblica, nonché una parte dei componenti della Consulta e del Consiglio superiore della Magistratura. In questo modo partiti politici e partitocrazia saranno ancora i “dominus” del futuro assetto istituzionale della nostra Repubblica, complice il nuovo sistema elettorale della Camera che, a legislazione vigente, ha un forte indirizzo maggioritario, con pesante premio di maggioranza, nel ballottaggio, a favore del partito (e non della coalizione) vincente.

Nonostante le diverse competenze legislative attribuite a Camera e Senato, conflitti ed incertezze rimarranno perché si configurano una pluralità di interventi legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di approvazione delle leggi, infatti ci saranno ancora leggi bicamerali, nuove leggi monocamerali ma con possibilità per il Senato di richiedere emendamenti (non vincolanti), leggi a loro volta differenziate a seconda che gli emendamenti anzidetti vengano respinti dalla Camera rispettivamente a maggioranza semplice od assoluta.

Anche l’istituto regionale, nel nuovo assetto istituzionale, viene indebolito, infatti (permanendo l’attuale sostanziale impotenza regionale sul piano finanziario e fiscale) una ventina di materie tornerebbero alla competenza esclusiva dello Stato, tra cui l’ambiente, la gestione dei porti e aeroporti, i trasporti e la navigazione, la produzione e distribuzione dell’energia, le politiche per l’occupazione, la sicurezza sul lavoro, l’ordinamento delle professioni, ecc. Tuttavia, con la solita ambiguità ed ipocrisia, la riforma da un lato elimina quasi totalmente le competenze concorrenti Stato-Regioni, ma dall’altro lato quando attribuisce la competenza “esclusiva” allo Stato, su molte materie la limita alle sole “disposizioni generali e comuni”.
In tale caos normativo-istituzionale, che si possano evitare conflitti di attribuzioni tra Stato e Regioni, o addirittura tra Camera e Senato, e che l’iter legislativo si faccia più chiaro e celere, è puramente un sogno.

Sotto il millantato intento di “contenere il costo di funzionamento delle istituzioni” vengono evidenziati: la riduzione del numero dei nuovi Senatori (che non avranno l’indennità specifica ma non si faranno certo mancare un lauto “rimborso spese” e acquisteranno anche l’agognata immunità parlamentare); la soppressione di tutte le Province, ma col “pasticcio” di creare le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado; la soppressione del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro).
Anche ammettendo che i risparmi derivanti dalle voci anzidette possano assommare a 150/200 milioni di euro all’anno, si tratterebbe comunque di una somma esigua rispetto ad un bilancio annuale dello Stato di più di 800 miliardi. Su questi aspetti c’è da dire:
– che il buon andamento delle istituzioni non si misura dal costo del numero di persone chiamate alle cariche elettive, ma dalla operatività della istituzione in questione, dai risultati raggiunti in termini di celerità e lungimiranza degli interventi, dall’equilibrio e collaborazione tra i diversi organismi dello Stato;

– che bisognava rivedere, razionalizzandole, le dimensioni territoriali di tutti gli enti costitutivi della Repubblica, a partire dai Comuni, infatti le vecchie Province non avevano complessivamente demeritato più delle attuali Regioni, e che dire della persistenza di migliaia di diseconomiche micro-realtà comunali?;

– che non si può certo affermare che la soppressione del Cnel sia dipesa dal fatto che tale istituzione non abbia funzionato, infatti il Cnel ha lavorato, anche se Camera e Senato non hanno saputo o voluto tener conto delle proposte, dei suggerimenti, dei contributi prodotti.

Più in generale nella riforma non si avverte la necessità di garantire sedi riconosciute per il doveroso confronto tra istituzioni politiche e rappresentanze sociali, né di valorizzare e rafforzare le rappresentanze elettive, né di intendere la politica come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.
Alcune buone intenzioni rimangono timide, o comunque non sviluppate, come la limitazione all’emanazione, da parte del Governo, dei decreti legge, o il contingentamento dei tempi per l’approvazione, da parte della Camera, dei progetti del Governo che siano significativi sul piano politico-programmatico.

Per intanto, secondo la riforma, per proporre una legge di iniziativa popolare non saranno più sufficienti 50.000 firme, ma 150.000, e per proporre un referendum abrogativo occorreranno 800.000 firme, anziché 500.000, anche se viene contestualmente promessa (ma senza indicare tempi e modi) una nuova legge costituzionale che preveda referendum propositivi e altre forme di consultazione popolare.

E veniamo al “metodo” della riforma costituzionale e al referendum confermativo.
1. La riforma in esame rappresenta, dal punto di vista parlamentare, un atto di forza del Governo Renzi, anche attraverso l’utilizzo di “maggioranze variabili”, anziché il frutto di un largo consenso pazientemente maturato tra le diverse forze politiche. L’infausta esperienza della riforma del Titolo V° della Costituzione (2001) non ha insegnato nulla, visto che le leggi costituzionali rappresentano le basi comuni (che devono quindi essere condivise) del vivere civile e politico (non certo strumento di parte per annientare gli avversari politici).

2. La personalizzazione dell’esito del referendum, presentato agli elettori come un giudizio sulla permanenza o meno in carica di un Governo, è stato un errore tattico e strategico grossolano. Tutto ciò svia dall’approfondire il merito del provvedimento in esame, anche se è comprensibile che il presidente Renzi avverta il senso di colpa ed il deficit di legittimazione democratica della sua ascesa al potere, essendo stata frutto di una manovra interna al suo Partito (a danno di Enrico Letta), con la complicità dell’ex Presidente della Repubblica.

3. Inoltre la minaccia reiterata di elezioni politiche anticipate, o di ingovernabilità del Paese, in caso di esito negativo del referendum con bocciatura della riforma, suonano come implicito ricatto e condizionamento nei confronti dei Parlamentari tutti, in particolar modo della minoranza interna al Pd, e minano altresì, a livello internazionale, la credibilità del Paese e delle nostre istituzioni. Infine il potere di indire nuove elezioni non è nelle prerogative del Presidente del Consiglio, nell’attuale ordinamento, anche se rivelano un grande nervosismo da parte del premier, forse consapevole dell’inconsistenza del suo progetto.

4. Essendo il referendum indetto su un unico quesito (cioè di approvazione o rifiuto dell’intera riforma), senza neppure il vincolo di raggiungere un quorum, l’elettore sarà costretto ad un unico voto ma su un testo non omogeneo, anzi disorganico, con alcune proposte condivisibili (poche) e le altre (molte) da rigettare perché potenzialmente foriere di nuove più gravi disfunzioni, in grado addirittura di mortificare principi portanti contenuti nella lettera e nello spirito della nostra Costituzione.

Per le considerazioni ed analisi fin qui sviluppate, riteniamo che se la riforma costituzionale Renzi-Boschi (purtroppo si chiamano “riforme” anche quelle “in peggio”) dovesse essere approvata nell’attuale testo (quello sottoposto al quesito referendario), non solo la nostra Costituzione risulterebbe incoerente tra le sue diverse parti (quelle originarie e quelle riformate), ma si consegnerebbe il Paese ad una serie di inciampi legislativi, organizzativi, amministrativi (altro che celerità e semplificazioni!) e certo, con la complicità della legge elettorale recentemente approvata, verrebbero poste le basi per la rinascita di inquietanti volontà di posizioni egemoni, arroganti, autoritarie, anche senza disporre di una legittimazione democratica da parte della maggioranza dei cittadini elettori.

Pertanto voteremo convintamente No: meglio prevenire in tempo, piuttosto che dover “curare” con fatica e dolore, poi.

Di riforme vere, anche della Costituzione, l’Italia ha certamente urgente bisogno, senza dover tuttavia rinunciare ai principi fondamentali di democrazia, pluralismo, libertà.

Michele Poerio, Segretario Generale Confedir

Carlo Sizia, comitato direttivo Feder.S.P.eV

Stefano Biasioli, Past President Confedir

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