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Russia, il putsch dimenticato e 25 anni inutili

mediterraneo daghestan, Russia, Putin

“Zadanie vipolmeno”: missione compiuta, tovarish tenente colonnello Putin, dice tra i denti Nicolai davanti al monumento di pietra sulla Novy Arbat, dove il viale scavalca Novinski Bulvar. Il cippo e le sue colonne quadrate sono grigi come la strada e i palazzi moderni intorno. Meriterebbero un restauro o almeno una ripulita. Sotto la frase “qui sono morti nell’agosto del 1991 i difensori della democrazia in Russia” vi sono scolpiti tre nomi: le uniche vittime di un evento considerato una pietra miliare della storia contemporanea – e di cui questo è l’unico e modesto memoriale. C’è voluto Nicolai, che vive poco lontano e fa l’insegnante di storia, per trovarlo.

Nel Paese di Vladimir Putin in pochi sanno e ricordano cosa successe tra il 18 e il 21 di agosto del 1991, quando un colpo di stato ispirato e diretto dal Kgb tentò di far fuori Mikhail Gorbacev, il presidente liberalizzatore che stava aprendo l’Unione Sovietica al mondo. Il golpe fallì grazie alla resistenza dei moscoviti, ai soldati della divisione Tamanskaya, che disobbedendo agli ordini voltarono le torrette dei tank schierandosi a difesa del parlamento, e alle parole di libertà pronunciate da un leader democratico emergente: Boris Eltsin.

In quei giorni d’agosto finì l’Urss, è stato scritto. Ed è l’impressione che avemmo tutti, guardando in tv Eltsin in piedi sul tank col megafono ad arringare la folla, e la bandiera russa a strisce bianche, azzurre e rosse sventolare sul Soviet supremo. Quelle immagini restano tra le più emblematiche della tensione ideale, del coraggio e delle speranze che a cavallo tra gli ultimi due decenni del secolo scorso agirono per cambiare in meglio il mondo. Il regime comunista crollò con quelle immagini. La caduta ufficiale, pochi mesi dopo, fu solo una ratifica.

Ma allora perché qui nessuno ricorda? Il fatto è che in Russia la storia la scrive il Cremlino – spiegano a Mosca sociologi e osservatori della politica. Oggi come ai tempi dell’Urss. Gli ideali e la vivacità culturale di venticinque anni fa non ci sono più. E’ come se la élite al potere avesse completato l’opera dei golpisti di allora. Missione compiuta. Con la complicità più o meno involontaria dell’Occidente.

NON SO O NON RICORDO 

Il 16 percento dei russi oggi non scenderebbe in piazza contro un golpe dei servizi segreti per restaurare l’Unione Sovietica, secondo un sondaggio fatto dall’istituto indipendente di statistica Levada alla vigilia di questo anniversario.

Il 30 percento, poi, ritiene che il fallimento del putsch provocò alla Russia un sacco di guai – primo fra tutti lo smembramento dell’impero sovietico. E giudica negativamente chi vi si oppose, assimilando le manifestazioni di allora alle “rivoluzioni colorate” nei paesi ex comunisti, stigmatizzate dal Cremlino – con qualche ragione – come foriere di instabilità e confusione.

Ma c’è un dato del sondaggio Levada che sconcerta più degli altri: il 50 percento della popolazione non ha proprio la minima idea di cosa avvenne nell’agosto 1991. Del putsch del Kgb non ha mai sentito parlare, o lo si è dimenticato.

“Chi ancora ricorda, lo considera solo un episodio della lotta tra clan per il potere alla fine del comunismo”, dice al telefono da Mosca il politologo dell’istituto Carnegie Andrei Kolesnikov. “Il problema è che la storia in Russia viene utilizzata. Oggi come ai tempi dell’Urss: serve a chi è al potere per manipolare le masse e creare consenso. In sostanza, è messa al servizio dell’autoconservazione di una casta”.

Nei libri di scuola, sul putsch di agosto c’è un paragrafo o al massimo una pagina. Esempio: il “manuale scolastico” per il liceo a cura di O.L. Soboleva, pubblicato da Ast Press: nove righe, nelle edizioni posteriori al 2000. Vi si legge solo che un gruppo politico cercò di roveciare Gorbacev per prendere il potere e salvare l’Urss dalla disintegrazione. Che è anche vero. Ma è troppo poco, senza contesto. Meglio fa la “Storia della Russia, XX e inizio XXI secolo”, manuale per l’ultimo anno delle scuole superiori a cura di A.A. Levandovsky e altri, edito da Prosvetschenie: quattro paragrafi, nella versione pubblicata nel 2013. Anche qui si sottolinea che dopo il golpe fallito ci fu lo smembramento del Paese.

“I libri per ragazzi, come i giornali e le tivvù controllati dal governo, trascurano gli avvenimenti storici che non servono, esaltano la vittoria nella Grande guerra patriottica (la Seconda guerra mondiale, ndr), e definiscono la fine dell’Unione Sovietica una catastrofe geopolitica, proprio come dice Putin”, nota Kolesnikov.

Ultimamente, si rivaluta la figura di Stalin. Non solo come leader vittorioso contro i nazisti: soprattutto vengono ricordati l’ordine e la sicurezza garantiti dal suo pugno di ferro. Delle purghe e dei morti ammazzati o per sfinimento, nei molti documentari sul dittatore trasmessi dalle tv governative a partire dallo scorso anno, non vi è quasi traccia. “Oggi chi parla dei processi, delle esecuzioni e dei gulag è considerato più o meno un sovversivo”, scherza – ma mica poi tanto – il politologo.

OPPORTUNISMO E CAPACITÀ GLOBALE 

La stessa annessione della Crimea è da leggersi sotto la lente dell’uso opportunistico della storia, secondo Andrei Kolesnikov. Il metodo è quello marxista: si tratta di creare un “rapporto operativo col passato”, che deve “rispondere alle esigenze del presente” – teoria descritta dallo storico comunista Jean Chesnaux negli anni Settanta.

In pratica: si enfatizza il fatto che la Crimea è storicamente russa e la si fa diventare russa con il plauso dei cittadini russi e, possibilmente, dei crimeani. Obiettivo raggiunto subito, all’esterno e all’interno. Il rapporto col passato giustifica l’azione nel presente, e la rende immediatamente gratificante producendo consenso. Ogni considerazione morale, o anche strategica, può attendere.

“In politica internazionale il Cremlino non ha visioni ad ampio raggio, né le ritiene necessarie”, afferma via e-mail uno dei maggiori conoscitori della diplomazia russa, il direttore di Russia in Global Affairs Fyodor Lukyanov: “La nostra attuale politica estera è reattiva, pragmatica, pronta a sfruttare tutte le opportunità; non dà fiducia a nessuno; è fondata sulla più brutale forma di realismo”.

E’ lo “opportunismo costruttivo”, baby – dice chi la sa lunga. Negli ultimi mesi ha portato la Russia all’intervento in Siria – con tanto di falso ritiro dopo un roboante road show militare. Ancora più recentemente, lo stesso opportunismo ha ispirato il riavvicinamento con la Turchia di Erdogan (forse più suddito o potenziale traditore che alleato, se non altro per il modo chiama Putin “il mio amico”). In questi giorni, Mosca ha ritenuto opportuno e costruttivo ostentare l’alleanza con Teheran utilizzando per la prima volta basi aeree iraniane per i raid dei suoi bombardieri strategici su Aleppo e dintorni.

Quella russa è una politica che crea scompiglio su una scacchiera dove re, regine e cavalieri sono da tempo sclerotici. E’ una politica piena di rischi. Ma ha riportato la Russia al ruolo di superpotenza che le compete. E forse potrà anche contribuire a una soluzione per il conflitto siriano e per altre crisi mediorientali e non. Sempre che nello “opportunismo costruttivo” la costruttività non soccomba all’opportunismo.

“E’ vero: alle strategie preferiamo la reazione tempestiva e realistica alle opportunità che via via ci si presentano”, risponde da un ristorante italiano di San Pietroburgo Alexey Chesnakov, esperto di politica estera molto vicino al Cremlino. Alexey è direttore del Centro per l’attualità politica (Ccp) – al servizio della presidenza federale fin dal primo mandato di Putin. Fino a due anni fa era il numero due di Russia unita, partito di riferimento del presidente. Ha un’esperienza di prima mano dei dossier sul tavolo. “Le grandi strategie ora non servono”, spiega: “questo è un momento di transizione, sulla scena stanno cambiando gli attori protagonisti: l’America avrà una nuova presidenza, poi ci saranno le elezioni politiche in Germania e in Francia”.

Per uscire dalla crisi ucraina e per una soluzione in Siria “è cruciale ridefinire i valori e gli obbiettivi comuni di politica estera con i nostri partner”, afferma Chesnakov. “Ma vogliamo farlo con i loro nuovi leader”. Quindi, reattività ma anche capacità di attendere? “Aspettiamo gli Usa, soprattutto: le prossime mosse, ma soprattutto il nuovo presidente”, sottolinea il consigliere di Putin. E per questo motivo prevede mesi turbolenti, da qui fino almeno al gennaio del prossimo anno. Tante crisi, anche se probabilmente non di grande portata. Poi un periodo di incontri e negoziati.

MA L’URSS È DAVVERO FINITA? 

La Russia è di nuovo una potenza globale. Si è annessa la Crimea. Dice la sua sulle crisi mediorientali, e con argomenti da prendere parecchio sul serio. Putin ha attuato un programma di riarmo di dimensioni sovietiche e, nonostante la crisi dell’economica interna pesi eccome sui conti pubblici, non intende fermarlo. Non solo per sostenere il suo già altissimo gradimento agendo sul patriottismo dei suoi concittadini.

Anche in Occidente la corsa agli armamenti continua. La Nato assedia da tempo le frontiere della Federazione, e aumenta ogni giorno la sua presenza – sfidando lo storico senso di insicurezza di Mosca. Obiettivo primario della Russia, oggi: contenere un’espansione dell’alleanza occidentale in Ucraina.

Intanto, il Cremlino, come ai tempi dell’Urss, ha messo in piedi un apparato propagandistico capillare e controlla la maggior parte dei media. E come ai tempi dell’Urss ha la sua quinta colonna oltrecortina: non più i partiti comunisti nazionali ma i movimenti populisti e dell’estrema destra europei e americani – tutti in piena crescita. Quindi, cos’è cambiato – a parte il quadro ideologico, oggi inesistente – dai tempi dell’Urss?

“E’ chiaro che il paragone con l’Urss può essere solo metaforico: la Russia ha un’economia di mercato e una costituzione democratica”, dice Andrei Kolesnikov. “Ma l’attuale élite politica è conservatrice e imperialista quanto lo erano i golpisti dell’agosto 1991”.

L’affermazione del politologo non può stupire: il Kgb fu il motore del tentato putsch, e al potere c’è un ex funzionario del Kgb. Più tardi, da politico, ebbe anche l’ incarico di capo dell’Fsb, erede del famigerato servizio sovietico. Il leader del Cremlino ora ha messo suoi ex colleghi nell’intelligence alla testa dei maggiori gruppi industriali e nei posti chiave dell’amministrazione statale.

Masha Gessen, la giornalista russa autrice della biografia critica “Putin, l’uomo senza volto” (Bompiani, 2002), ritiene che sia sempre stata la nostalgia del sistema sovietico e della potenza del Kgb, oltre a una notevole sete di denaro, a ispirare in politica l’attuale presidente della Federazione Russa.

Nessun rimpianto per il comunismo. Chi ci credeva più al comunismo, negli ultimi anni dell’Urss. Piuttosto, la lucida volontà di resuscitare l’organizzazione per il controllo interno e il ruolo di superpotenza che l’Unione Sovietica aveva. Putin ci ha provato. Certo, col limite di un quadro istituzionale teoricamente democratico. Ma in buona parte è riuscito nell’intento. Almeno secondo la Gessen, che in un recente articolo sul New York Times scrive che mai come oggi, negli ultimi 25 anni, la vita in Russia è stata così simile alla vita nell’Unione Sovietica.

“Prevale un cupo realismo senza ideali”, dice Fyodor Lukyanov. La situazione attuale gli ricorda il grigiore soffocante dell’era Breznev. Rimpiange la Russia che un quarto di secolo fa si metteva in gioco: “sì, certo è stato un periodo di luce e di speranze”, ricorda l’intellettuale moscovita. “Specialmente tra il 1887 e il 1990: era il tempo dell’ottimismo e delle grandi aspettative, la stagione dei grandi ideali. Non c’era ancora l’esperienza del fallimento. Si era improvvisamente liberata così tanta energia. E non era iniziata la dittatura del denaro”.

NEMICI E COMPLICI 

La rivincita del Kgb è quindi compiuta? Il tenente colonello Vladimir Putin (un grado considerato bassino, nella ditta) si dimise proprio nei giorni del putsch d’agosto. Masha Gessen ritiene che le dimissioni fossero tattiche, e che con diverse modalità il futuro presidente abbia continuato a lavorare per il servizio anche dopo. Nel gergo delle spie si chiama “deception”. Once a spy…

Comunque, se davvero l’agente Putin aveva o si era dato la missione di riportare il Russia al passato – per continuare in metafora – ha potuto contare su asset (agenti clandestini) davvero insospettabili.

L’Occidente se l’è proprio voluta, questa Russia – spiega Fyodor Lukyanov -. Che critica la politica estera e interna del suo paese ma le giustifica entrambe: “l’espansione della sfera militare e politica occidentale è stata continua, a partire dal 1991. La Nato allora aveva 12 stati membri, oggi ne ha 28. E il primo allargamento dell’alleanza, nel 1999, fu immediatamente seguito dal suo primo utilizzo della forza militare: ex Yugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia”.

Mettendo da parte le fobie e la propaganda che pure agiscono da entrambe le parti, e guardando con sobrietà alla situazione, “che conclusione dovrebbe trarre uno stato che non ha mai avuto alcuna prospettiva reale di entrare nella Nato ma è stata invitata a credere che il rafforzamento e l’espansione della stessa non la danneggiasse in alcun modo?” – si domanda l’analista diplomatico.

L’incapacità di Washington e dei suoi alleati di uscire dalla mentalità della guerra fredda, le distorsioni dovute alla potenza della lobby degli armamenti e le turbolenze che ne sono derivate e ne derivano sono “distruttive”, secondo Lukyanov, “anche per quanto riguarda il rispetto del diritto di sovranità alla luce della salvaguardia dei diritti umani”. E questo “ha portato diversi paesi, inclusa la Russia, a ritenere indispensabile un controllo interno più duro”.

C’è stato un momento, ai tempi di Gorbacev e immediatamente dopo, in cui abbiamo avuto l’occasione di re-immaginare il mondo. L’abbiamo persa. Il presidente della perestroika, il visionario involontario che un giorno disse al suo ministro degli Esteri Eduard Shevarnadze “non possiamo continuare a vivere così” e cominciò a restituire la libertà ai russi, afferma che con l’aiuto finanziario dell’Occidente le sue riforme avrebbero potuto funzionare e le cose sarebbero andate diversamente.

L’Occidente non volle mettersi in gioco, non volle dar fiducia alla Russia. L’aiuto per Gorbacev non ci fu. L’idea di una “casa comune europea” non fu mai presa in considerazione. E i russi la libertà offerta da Gorbacev non la vollero. Né lo hanno mai ringraziato.

Con gli oligarchi del Far West nella Russia di Eltsin, e oggi con i sempre più ricchi amici di Putin, a finanzieri e imprenditori di Berlino, Londra, Milano e New York gli affari non son mancati e non mancano. Tanto è bastato.

Venticinque anni perduti, ha scritto Fyodor Lukyanov tempo fa in un suo articolo. Ma forse l’aggettivo giusto è “deleteri”. Se l’operazione dei golpisti dell’agosto 1991 è stata completata con successo da loro colleghi al tempo oscuri funzionari nell’immortale e potente Kgb, è colpa anche di noi occidentali. “ZadanieVipolmeno”: missione compiuta, può dire oggi l’agente Putin. E ringraziare Washington.

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