Quando, con il dovuto distacco, gli storici economici si occuperanno di questi lustri, porranno probabilmente il 2008 (crisi finanziaria) come l’anno dell’inizio “convenzionale” della deglobalizzazione ed il 2016 quello della fine (fine del negoziato sulla partnership economica transatlantica e non-ratifica di quello analogo per la partnership attraverso il Pacifico).
Se ve vedono i segni concreti, di cui la crisi finanziaria, variamente collegata alla finanza strutturata ed ai mutui subprime, è un sintomo piuttosto che una determinante. In altri termini, occorre capovolgere le affermazioni banali sulle implicazioni (sull’economia reale) del tormentone sulle piazze finanziare e comprendere come quanto avviene, ormai da anni, sui mercati finanziari è, piuttosto, conseguenza di disfunzioni dell’economia reale. Sono proprio gli esperti della moneta a dirlo.
Ad esempio, Paul Tucker, ex Governatore della Bank of England, sottolinea due punti importati:
a) è la prima volta che una crisi di questa portata avviene in periodo di pace;
b) una delle sue determinanti è il “Social Contract” (noi lo chiameremmo giornalisticamente l’inciucio) tra banche centrali ed autorità politiche per fare fronte a problemi economici sistemici.
Tale “Social Contract” ha dato priorità all’innovazione finanziaria, senza, però, definire regole congrue. Sino a quando è giunta l’implosione; una rarità in tempo di pace e dopo che, in seguito alla depressione degli Anni ’30, le autorità di politica economica hanno appreso a gestire domanda aggregata con strumentazione tale, in certi casi, di consentire pure il “fine tuning” (virtuosismo). Considerazioni simili si leggono in una raccolta di saggi, a cura di Gian Giacomo Nardozzi: “Asset Prices and Monetary Policy Rules: Shall we Forsake Financial Markets Stabilization?” (prezzi delle attività economiche e regole di politica monetaria: dobbiamo rinunciare alla stabilizzazione dei mercati finanziari”?). Il titolo della raccolta è eloquente: ci induce a guardare con maggiore attenzione all’economia reale.
Un’analisi di documenti tecnici (apparentemente solo per gli “addetti ai lavori”) sul commercio internazionale evidenzia che è cambiata l’elasticità degli scambi mondiali di manufatti alle variazioni del pil: dopo essere stata, nel corso degli Anni ’90, attorno a 2,5 (ossia gli scambi mondiali aumentavano di 2,5 punti percentuali quando il pil cresceva di un punto percentuale), risulta in questo primo scorcio di XXI secolo inferiore a 2 e pare tenda ad approssimarsi a 1. In parole povere, e senza tanti tecnicismi, ciò vuole dire che il meccanismo tradizionale di propagazione della crescita si sta indebolendo. E lo sta facendo molto rapidamente.
Altro indicatore di rilievo è il vero e proprio crollo degli investimenti diretti all’estero: pur tenendo conto delle scorrerie dei “fondi sovrani” dei “nouveaux riches” dell’economia mondiale, dall’inizio del secolo il flusso di investimenti diretti (non in portafoglio) all’estero è quasi dimezzato rispetto all’ultimo decennio del secolo scorso.
Non ci sono dati attendibili sulle migrazioni internazionali; è, tuttavia, chiaro che quasi tutti i Paesi di immigrazione netta stanno adottando politiche dirette a contenere i flussi, oppure ad incoraggiare solo quelli di professionalità (informatici, paramedici) di cui l’offerta è generalmente carente nel mondo industrializzato ad alto reddito.
Il campo dove la deglobalizzazione è più evidente è la liberalizzazione e l’apertura del commercio internazionale. Dopo il fallimento della trattativa multilaterale Wto/Omc (World trade organization, Organizzazione mondiale del commerciale) sono in corso due tendenze piene di insidie (per l’integrazione economica internazionale): il rafforzarsi di mercati comuni o zone di libero scambio regionali ed il moltiplicarsi di accordi commerciali bilaterali.
Il pullulare di accordi bilaterali – sostiene, in un saggio fresco di stampa, Jeffrey Schott dell’Institute of International Economics – minaccia di frammentare il commercio o almeno di ingabbiarlo in una ragnatela simile ad un labirinto. I due trattatiti di partnership attraverso l’Atlantico ed attraverso il Pacifico avrebbero dovuto, almeno, arrestare questa tendenza.
Le esperienze del passato insegnano che le deglobalizzazioni non portano nulla di buono: sono spesso state i prolegomeni di guerre di vasta entità: la prima grande deglobalizzazione 1870-1910 si chiuse con due colpi di pistola a Sarajevo. Forse, il conflitto armato risultante dalla deglobalizzazione è già iniziato; il terrorismo ed i suoi college, ormai sparsi in tutto il mondo (anche in Italia) sono le sue avanguardie. E non ce ne accorgiamo.
Chi sono – chiediamoci – gli alleati della deglobalizzazione? Non sono certo i rumorosi (ma globalizatissimi) “no global”. Hanno la capacità di organizzare manifestazioni ma non di invertire tendenze. I veri alleati della deglobalizzazione sono quelli che, ai tempi del Kennedy Round, ossia alla metà degli Anni Sessanta, Mario Casari (Università di Padova, uno dei più acuti studiosi italiani di economia internazionale dell’epoca) chiamava i ”barracuda-esperti”, sovente alti funzionari molto vicini a settori produttivi intrinsecamente protezionisti, nonché a sindacati anch’essi sempre più ostili, in sostanza, alla globalizzazione anche quando, a parole, se ne professano favorevoli. I deglobalizzatori hanno trovato nuova nobiltà nell’atmosfera neo-colbertiana che, da qualche anno, aleggia in modo sempre meno strisciante e sempre più palese nelle cancellerie e nei Ministeri economici dei maggiori Paesi industriali. Gli alleati della deglobalizzazione sono tra noi. Ci portano verso un mondo meno prospero. Prendiamone contezza.
Prendiamo anche contezza che, su questo fronte, l’Italia è stata esemplare grazie alla fermezza liberista ed indefessa del Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Occorre dirlo a voce alta, specialmente da chi, come il vostro chroniqueur, spesso molto critico dell’attuale esecutivo.