Credo che l’intervista di Giorgio Napolitano a Mario Calabresi farà discutere molto (la Repubblica di oggi). L’ex inquilino del Colle non le manda certo a dire. Agli smemorati ricorda le condizioni da lui poste il 22 aprile 2013 alle Camere riunite nel discorso di accettazione del secondo mandato, nonché l’origine parlamentare dell’iter della riforma costituzionale (che non è stata quindi una scelta arbitraria del governo). Boccia senza appello l’idea di poter azzerare la riforma approvata, ricominciare da capo e fare meglio in poco tempo. Invita le opposizioni ad abbandonare, dopo la retromarcia di Renzi, l’assurda personalizzazione del referendum, trasformato in un attacco radicale al leader del Pd. Smonta infine la famigerata formula del “combinato disposto” tra riforma costituzionale e Italicum, cavallo di battaglia di Eugenio Scalfari e di tutti coloro che subordinano il loro sì al referendum a un cambiamento della legge elettorale.
Proprio l’Italicum, però, è il bersaglio di una rinnovata critica di Napolitano, perché non più rispondente al mutamento dello scenario politico in Italia e in Europa. Ci sono nuovi partiti, afferma il presidente emerito della Repubblica, che “hanno rotto il gioco di governo tra i due schieramenti, con il rischio che vada al ballottaggio […] e vinca chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare”. Con tutto il rispetto e la stima che nutro nei suoi confronti, questo mi sembra il passaggio meno convincente della sua per altri versi illuminante conversazione con il direttore del quotidiano di Largo Fochetti.
Penso che non sarebbe d’accordo con lui nemmeno uno dei critici più intransigenti dell’Italicum, Gianfranco Pasquino. L’eminente politologo lo ha spiegato con chiarezza in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 5 settembre scorso.
Come è noto, delle due discutibilissime clausole dell’Italicum si occuperà la Consulta, si dice il 4 ottobre. Si tratta delle candidature multiple e dei capilista bloccati, che riducono fortemente la libertà di scelta dell’elettore. Il punto più controverso, tuttavia, è costituito dal meccanismo del ballottaggio, che la minoranza Pd e lo stesso Napolitano vorrebbero abolire.
Si parva licet, come Pasquino dissento con questo auspicio. In primo luogo, perché le leggi elettorali non si cambiano (né si dovrebbero scrivere) in base a calcoli particolaristici. In secondo luogo, perché il ballottaggio ha il pregio incontrovertibile di conferire un grande potere agli elettori. Saranno, infatti, proprio loro a stabilire con il voto da chi vogliono essere governati.
Come sostiene Pasquino, se fosse eliminato l’assurdo divieto di fare “apparentamenti”, i partiti e le liste che vogliono appoggiare l’uno o l’altro dei due contendenti dovrebbero anche esplicitare le ragioni per le quali lo fanno. Il ballottaggio, inoltre, che gli elettori italiani conoscono e apprezzano nell’elezione dei sindaci, avrebbe effetti positivi sull’informazione, sulla formazione del programma, sulla trasparenza e anche sulla mitica “accountability” (la responsabilizzazione), elemento chiave delle democrazie che funzionano meglio.
Soprattutto, aggiunge Pasquino, gli elettori non sarebbero semplici spettatori. Dovrebbero a loro volta accettare la responsabilità di avere scelto una coalizione piuttosto che un’altra, una squadra di ministri piuttosto che un’altra. Se “fosse soppresso il ballottaggio non soltanto l’Italicum risulterebbe ‘evirato’, ma gli elettori vedrebbero svanire il concretissimo potere di scegliersi il governo e, certamente, crescerebbe la loro insoddisfazione politica”.